
Quella di evento è la categoria filosofica centrale del pensiero novecentesco. Dal concetto di evento-trauma della psicanalisi freudiana all’Ereignis di Heidegger, l’“evento-appropriazione” pensato come momento di coappartenenza tra uomo ed essere, fino all’idea di événement in Badiou e passando per le riflessioni di Deleuze e Derrida, la categoria di evento è stata l’oggetto privilegiato dell’interrogazione filosofica contemporanea, soprattutto di ambito fenomenologico. Ma che cos’è un evento? Cosa vuol dire dare forma e rappresentare un evento? L’evento è in primo luogo il punto di rottura di una situazione, imprevedibile e singolare, capace di generare un nuovo stato di cose. È l’accadere veritativo del reale, attraverso cui il soggetto può strutturarsi secondo una nuova legge di presentazione (Badiou). Ma l’evento può anche essere qualcosa di incorporeo che non appartiene all’occorrenza evenemenziale del reale. È quel puro espresso che è in ciò che accade e che ne costituisce idealmente il suo senso, come scrive Deleuze in Logica del senso. In altre parole, l’evento è quel momento di mediazione tra il corporeo e l’incorporeo, la materia e l’idea, l’immanenza e la trascendenza, che permette l’esistenza di ciò che noi chiamiamo vita e realtà. Se l’evento ha sostituito l’essere come parola chiave della filosofia è proprio in nome di questa sua potenza genitiva, inarrivabile e originaria.
Il cinema e il teatro sono da sempre le arti privilegiate nella rappresentazione dell’evento perché l’evento è in sé pura temporalità. L’evento disarticola la continuità temporale, la interrompe e la ripensa. Rappresentare l’evento significa dare corpo a quel punto di rottura da cui è generata l’azione drammatica. Tutti i grandi personaggi della tradizione drammaturgica occidentale danno corpo a figure evenemenziali nella maniera in cui incarnano soggettività che si strutturano a partire da un punto di rottura radicale. Uno scarto tra l’essere e il non essere, la vita e la morte. È quello che accade a Edipo e Amleto, Antigone e Don Giovanni.
Ma come può il cinema – linguaggio che si fonda sin dall’epoca classica sull’idea di continuità narrativa – dare corpo alla discontinuità dell’evento? È il problema che i grandi cineasti si sono posti da sempre, cercando per esempio di costruire figure della discontinuità attraverso i grandi dispositivi del montaggio (Ejzenštejn), dell’inquadratura (da Welles a Hitchcock, Dreyer), della scenografia (da Lang a Buñuel). I percorsi di ricerca sono dunque numerosi e riconducibili a diverse linee direttrici.
L’evento come costruzione del senso. Da Viaggio in Italia di Rossellini ai grandi finali del cinema di Minnelli (Qualcuno verrà, Due settimane in un’altra città), dai film di Bresson (Mouchette) e a quelli di Dreyer (Ordet, La passione di Giovanna D’Arco), l’evento è ciò che, attraverso un processo di sospensione della narrazione, di sua interruzione, consegna senso all’intera struttura narrativa costruita a partire dalla continuità del plot e dello storytelling. Il grande cinema racconta da sempre l’accadere di eventi ordinari, come nei film di Ozu, o straordinari, come in quelli di Herzog, in cui la presa di coscienza del senso della narrazione si attiva attraverso la sua sospensione, attraverso il suo capovolgimento in grado di consegnare un autentico significato a ciò che viene mostrato sullo schermo. Queste sospensioni possono prendere varie fisionomie: l’irruzione di un accadimento radicale che interrompe e riqualifica retroattivamente la logica dell’azione che la precede (il finale di Chinatown di Polanski), singole sequenze in cui un’epifania di senso prende corpo arrestando la temporalità del film. Come per esempio le sintesi disgiuntive tra “tempo e durata” nel cinema di Murnau (la scena dei due amanti sul tram in Aurora su cui ha scritto Badiou) o Mizoguchi (il finale de Gli amanti crocifissi), o quelle tra “visualità e musicalità” nei passaggi mahleriani di Morte a Venezia di Visconti, o in quelli bachiani di Accattone, o ancora nei musical di Donen.
L’evento come emersione del reale. Il cinema lavora a far emergere l’evenemenzialità autentica del reale attraverso l’organizzatore di un flusso sempre più eterogeneo di immagini intermediali, amatoriali, d’archivio e non cinematografiche. È il caso del cinema del reale, da Wiseman a Marcello, da Marazzi a Frammartino. Il cinema ripensa la realtà a partire da grandi figure evenemenziali (la trasformazione del personaggio in bufalo in Bella e perduta) oppure costruisce modalità di rispecchiamento nell’immagine dell’evenemenzialità epifanica del reale (la graduale presa di coscienza del suicidio materno in Un’ora sola ti vorrei). Ma è anche il caso di registi di finzione come Soderbergh o De Palma, e il loro tentativo anti-narrativo di rovesciare la logica del genere e costruire una scrittura del reale attraverso l’uso di immagini anonime e impersonali (si pensi a film come Redacted o High Flyng Bird).
La Storia come evento. Il cinema ha da sempre raccontato i grandi eventi storici trasformandoli in figure cinematografiche. Da Napoléon di Gance a Santiago, Italia di Moretti, fino ai prossimi film di Tarantino (Once Upon a Time in Hollywood) e Polanski (J’Accuse…!), il cinema ha pensato la Storia come momento costitutivo dell’immagine (e viceversa). Se per gran parte della tradizione classica la Storia è stata la scenografia spettacolare attraverso cui raccontare il presente (Aleksandr Nevskij) o celebrare il passato (Nascita di una nazione), è con la modernità cinematografica che l’immagine si pone frontalmente il problema della Storia in relazione al suo stesso linguaggio. Da Senso di Visconti alle Histoire(s) di Godard, il cinema ha cercato di divenire il linguaggio della (sua) Storia, pensarsi come evento dentro il più grande orizzonte macrostorico. Se è vero che non ci sarebbe stato il neorealismo senza la ricostruzione del dopoguerra, è anche vero che il secondo dopoguerra non sarebbe stato quello che conosciamo senza il neorealismo. Questo legame intrinseco tra portato evenemenziale del cinema e quello della Storia è stato tragicamente confermato dalla contemporaneità: dall’11 settembre ai video dell’Isis, l’immagine è parte ed elemento costitutivo dell’evento storico.
La forma dell’evento. Come si diceva, il cinema costruisce figure evenemenziali attraverso gli strumenti che sono propri dell’immagine. Attraverso il montaggio e la sceneggiatura, la regia e la scenografia, i grandi cineasti hanno da sempre cercato forme della discontinuità all’interno della continuità intrinseca dell’ordine formale e simbolico del film. Dal montaggio delle attrazioni (Ejzenštejn) all’uso della profondità di campo (Wyler, Kubrick), fino alle coreografie della tridimensionalità digitale, il cinema ha pensato grandi dispositivi formali attraverso cui smarcarsi dalla linearità della logica narrativa che, da Griffith in poi, ha segnato la grammatica del suo linguaggio. Lo stesso sembra accadere nelle nuove forme della narrazione contemporanea, nella serialità che apparentemente sancirebbe il primato della continuità narrativa su qualsiasi scarto evenemenziale. È il caso della terza stagione di Twin Peaks, ma anche di serie come True Detective o Sense8, costruite seguendo salti temporali, narrazioni in soggettiva che si alternano a sguardi onniscienti, squarci nell’apparente autosufficienza e organicità del loro ecosistema capaci di costruire figure evenemenziali.