
Che ne è dell’umano? Questa domanda ha agitato e continua ad agitare i discorsi e i dibattiti da molto tempo, e da diverse prospettive. Certo, l’uomo (come valore, come idea), ricordava Foucault, è una invenzione recente, destinata sempre più a perdere centralità nel mondo contemporaneo. Prima di lui, Nietzsche ne aveva annunciato la “morte”, il necessario oltrepassamento, e Freud aveva ricostruito le tre tappe che nel corso dei secoli hanno scosso la pretesa dell’uomo di essere al centro dell’universo (la teoria eliocentrica, la teoria evoluzionistica e ovviamente la psicoanalisi).
Ma l’umano non si identifica con il concetto di “uomo”. Questo aggettivo sostantivato sembra oggi indicare una condizione di vita in bilico, in pericolo o in transito. Se nel dibattito contemporaneo termini come transumanesimo o postumano occupano sempre di più lo spazio del dibattito teorico pluridisciplinare, questo è il segno di una domanda sempre più urgente, pressante.
Una domanda che ne rivela poi un’altra alla base: cosa è “umano”? La sempre maggiore dipendenza da dispositivi tecnologici che aumentano o trasformano la potenza del corpo umano, così come la crisi dei sistemi sociali che dovrebbero garantire l’universalità dell’umano (al di là di ogni differenza etnica, culturale o di genere), contribuiscono a rendere attuale queste domande. Cosa è “umano”?
Il Novecento, come secolo del cinema, ha costantemente attraversato e rielaborato tali questioni, attraverso le sue specifiche forme narrative, attraverso il suo stesso dispositivo. Ha creato personaggi-limite, come le figure sospese tra l’umano e il non-umano, dall’espressionismo tedesco al cinema Cyberpunk; ha indagato la perdita della propria umanità nella nascita della massa senza identità; ha esplorato le trasformazioni dell’umano in relazione allo sviluppo della tecnologia capace di creare protesi o potenziamenti del corpo; ha posto con forza la domanda sull’ “umano” dando vita sullo schermo a personaggi e corpi che non esistono (o non esistono più). Ha esplorato ogni aspetto etico del significato di “umano”, intercettando le inquietudini e le tensioni della tarda modernità. I percorsi sono dunque diversi e molteplici, e possono essere pensati a partire da alcune linee direttrici.
La soglia dell’umano. Il cinema ha sin dalle sue origini esplorato, attraverso le sue forme peculiari, le trasformazioni del corpo come segno dell’esplorazione dei limiti dell’umano. Golem, robot, cyborg, esseri potenziati tecnologicamente, dotati di impianti tecnologici, modificati geneticamente hanno costantemente attraversato le narrazioni cinematografiche e non solo. Dal Golem di Wegener, passando per il robot di Metropolis di Lang, arrivando al Cybercop di Paul Verhoeven, i replicanti di Blade Runner le forme artificiali senzienti del cinema di fantascienza, l’ibridazione copro macchina in Iron Man. O ancora, ha dato forma all’immagine-limite dell’umano nel cinema di Cronenberg, all’ibridazione simbolica o concreta di corpi e meccanismi, di conflitti tra l’umano, la natura e la tecnologia (come nel cinema di Miyazaki, di Tuskamoto). È la soglia dell’umano a interrogare il concetto di postumano, ad analizzarlo e metterlo in questione.
L’umano come ethos. Il concetto di umano si definisce in particolare come forma dell’etica, come messa alla prova di ciò che dovrebbe definire l’umano come pratica di vita, relazione, identità collettiva. È a volte il dilemma di Hitchcock (Nodo alla gola), ma anche di quel cinema che mette alla prova i suoi personaggi, spesso immersi nelle contraddizioni delle scelte etiche che li pressano. È il cinema di Rohmer, di Rossellini, di Polanski e dei loro personaggi alle prese con un reale che li travalica e li costringe ad una scelta in grado di decidere della propria umanità. Ma è anche il cinema che interroga i conflitti politici della contemporaneità, come il conflitto tra regole economiche e pratiche di vita. Il cinema che interroga le pratiche del lavoro contemporaneo come forme di annichilimento delle potenzialità dell’umano (da Cantet a Brizé, passando per il cinema dichiaratamente politico di Loach), o che è capace di creare forme in grado di rendere le trasformazioni profonde dell’umano nello scenario contemporaneo (Pasolini). È su questa linea che il cinema si pone come grande e contemporanea forma della domanda etica.
La perdita (o l’eccesso) dell’umano. Il titano, il sovrano, il folle, l’alienato, l’uomo-massa. Sono essi alcuni dei rappresentanti della fine dell’umano o sono la sua realizzazione estrema? È su questa doppia domanda che spesso il cinema ha preso le mosse, dai personaggi titanici o folli di Herzog, passando lungo le grandi interrogazioni del potere (dal Luigi XIV di Rossellini alla trilogia del potere di Sokurov). La domanda sulla perdita o sulla fine dell’umano si è spesso accompagnata alla domanda opposta, sull’eccesso come realizzazione estrema dell’umano. La paura e il desiderio, l’inquietudine e la fascinazione sono le sensazioni che spesso accompagnano i personaggi eccessivi di Kubrick, così come anche le figure del male nel cinema di Haneke o di Seidl, o le figure teologiche e folli di Bruno Dumont. Sono figure che spesso mettono in questione le definizioni convenzionali dell’umano, forzandone i limiti spesso artificiali o comodi, costringendo il pensiero a rimetterli in questione. È il cinema stesso dunque, da sempre sospeso tra reale e artificiale, a porsi come strumento di interrogazione privilegiato dei limiti dell’umano.
Il cinema come espressione al di là dell’umano. In fondo è il cinema stesso a costituirsi come linguaggio, espressione, che supera l’ancoraggio psicologico e morale dell’umano. Il piano di immagine-materia che Deleuze (riprendendo Bergson) identifica con il cinema stesso, è un piano la cui accessibilità deriva dal fatto che il cinema, per esempio attraverso il montaggio, supera i limiti della prospettiva parziale umana. Ma anche la molecolarità della percezione a cui il cinema – per Epstein – garantirebbe l’accesso, è qualcosa che sospende e oltrepassa la percezione umana; e le capacità espressive del primo piano-volto – su cui insiste Balázs - presuppongono una prossimità impossibile per l’occhio umano. Per i grandi teorici del cinema, a cui aggiungere anche Bazin con la sua idea della meccanicità dell’occhio cine-fotografico - la potenza espressiva del cinema passa dunque per i suoi tratti non-umani.