
Con il cinema, scriveva Walter Benjamin nel 1927, sorge «una nuova regione della coscienza» (eine neue Region des Bewusstsein), entro la quale si dispiegano, per l’uomo moderno, «l’ambiente immediato, gli spazi nei quali vive, attende alle sue faccende, si diverte». Il cinema rappresenta una di quelle «fratture delle formazioni artistiche» in grado di far saltare – «con la dinamite dei decimi di secondo» – il senso comune dello spazio e del tempo e di riconfigurare, nella nuova regione cui dà forma, il nostro modo di relazionarci con il reale, con la finzione e con l’orizzonte dell’immaginario e del possibile. L’idea della nuova regione della coscienza, nata in difesa di Ejzenštejn e della Corazzata Potëmkin, porta con sé, da una parte, il significato politico della coscienza quale configurazione storica e dunque inalienabile al tempo che la conforma, ma dall’altra parte si presenta come nuova articolazione di un’esperienza che reca i segni di una trasformazione (una frattura, appunto) culturale potente, destinata a incidere sulla percezione, sulle sensazioni e sulle emozioni dello spettatore moderno che va modellando.
Muovendosi tra la fenomenologia e il pensiero di Gilles Deleuze e seguendo il formarsi di quella che ha definito «coscienza filmica» (film-consciousness), Spencer Shaw ha sottolineato la forza con cui il medium cinematografico ha inciso, nel corso del tempo, sui modi in cui osserviamo ed esperiamo la realtà, favorendo la formazione di una «tecno-coscienza» (techno-consciousness) che è stata scandagliata, più ancora che dai teorici del cinema, dai cineasti, da quelli sperimentali come da quelli più inseriti nel cinema mainstream (il genere fantascientifico continua a riflettere molti di questi discorsi, come dimostra il più recente studio di Steven Shaviro). Una tale proposta oggi acquista un significato ancora più complesso e cogente se posto in dialogo con le nuove forme mediali e con la creatività digitale e postmediale. Del resto, vari studi sulla coscienza filmica (Pepperell e Punt, Blassnigg, Pisters, Tikka, M. Smith) o sulla soggettività e le forme di intenzionalità prodotte dal cinema (Chateau) hanno insistito su come questo concetto rimetta in discussione l’esperienza estetica presupposta dal film e torni a investire il rapporto cinema/reale.
Forme della coscienza. Già Münsterberg, studiando il “sentimento estetico” prodotto dal cinema a partire dalle sue condizioni psicologiche, scriveva che «la vastità del mondo esterno ha perso il suo peso, è stata liberata dallo spazio, tempo e casualità, è stata rivestita nelle forme della nostra coscienza». Pur partendo da posizioni diverse e ponendosi tutt’altri obiettivi, anche Edgar Morin ha riflettuto sugli aspetti coscienziali suggeriti dal film, arrivando a scrivere che il flusso di immagini, sentimenti, emozioni prodotto dal cinema costituisce «una corrente di coscienza surrogata, un Ersatz che si adatta e adatta a sé il dinamismo cenestesico, affettivo e mentale dello spettatore». Morin vi scorgeva l’interazione di due “dinamismi bergsoniani”, di due “soggettività”, realizzata nella simbiosi che integra lo spettatore nel flusso del film e il flusso del film nel flusso psichico dello spettatore. Un’idea che avrebbe trovato fortuna, oltre che in certe intuizioni di Stiegler, presso i cognitivisti (decisi a sottrarre l’esperienza filmica alle teorie psicanalitiche, cui il tema della coscienza pareva contrapporsi in modo netto) e che avrebbe portato il filosofo Colin McGinn a ripensare il potere del cinema a partire da ciò che definisce il «mind-movie problem». Deleuze, anni dopo, avrebbe piuttosto insistito sul fatto che la sola coscienza cinematografica «non siamo noi, spettatori, né l’eroe, è la macchina da presa, talvolta umana, talaltra inumana o sovrumana», restituendo opportunamente al dispositivo la sua centralità e favorendo un ripensamento delle forme della coscienza cinematografica che Jacinto Lageira ha spiegato giocando sulla dialettica tra consapevolezza e proiezione tipica della situazione cinematografica, dove la coscienza riflessiva (realizing consciousness) dialoga in continuo con la coscienza immaginativa (imaging consciousness).
Cinema/coscienza. Alcuni tra i maggiori studiosi della coscienza contemporanei utilizzano il cinema come metafora privilegiata per spiegare il fenomeno della coscienza. Antonio Damasio parla di «film-nel-cervello» e la stessa immagine è utilizzata da Christof Koch. Rispetto al collegamento tra il cinema e le forme della coscienza, qui si riconduce (in modo quasi bergsoniano) il mistero della coscienza al dispositivo cinematografico. Il filosofo Thomas Metzinger descrive la coscienza come «l’apparire di un mondo»: l’esperienza cosciente rende presente una realtà unificata, che siamo in grado di percepire per quelle che sono le nostre possibilità sensoriali in rapporto a quella realtà. Entro questo mondo, che ci appare come continuo, ci sentiamo capaci di muoverci, di agire e di orientarci ed esperiamo un’impressione di trasparenza data dall’inconsapevolezza del medium (in questo caso il nostro sistema cervello-corpo). La definizione di Metzinger, che riecheggia il mito della trasparenza, del montaggio trasparente e continuo, ci pone di nuovo, con decisione, di fronte ad una classica situazione spettatoriale, ad un’esperienza situata e a pratiche di immersione sensomotorie. Soprattutto ci mette di fronte ad «un mondo fatto apposta per noi», come direbbe Bordwell a proposito del cinema classico, oppure, per dirla con Allen, ad un «mondo completamente realizzato», in grado di produrre una «illusione proiettiva” o una «fantasia conscia». In parte, questo complesso sistema di relazione cinema/coscienza trova occasioni di studio nella crescente letteratura di ispirazione neurocognitiva. Del resto, anche questa equazione, apparentemente destinata a rimanere metafora, era presente, in forma di suggestione poetica e di programma epistemologico, negli scritti e nelle idee cinematografiche di Jean Epstein, il quale osservava che la pellicola contiene l’idea di una forma al pari dell’occhio, idea che sebbene «inscritta al di fuori della coscienza» è pure in grado di creare «uno stato di coscienza particolare», che avrà grande impatto sull’evoluzione della cultura e della civiltà, come Epstein sostiene nelle pagine in cui descrive quello strano esempio di “cervello-robot” che è il cinematografo.
Prese di coscienza. La configurazione storica della coscienza di cui il cinema di Ejzenštejn offriva, secondo Benjamin, un nitido esempio rivela la doppia valenza, estetica e politica, dell’immagine cinematografica e delle forme narrative che la contengono. La tradizione italiana da questo punto di vista ha elaborato un pensiero profondo e in parte ancora da indagare: nei primi anni cinquanta Zavattini diceva che il neorealismo era ormai «la coscienza del cinema», prefigurando, ad un livello pratico e teorico, il graduale passaggio dalla “presa di coscienza” ad un’“autocoscienza” del fare cinema nella modernità (The Conscience of Cinema, recita il titolo del più recente studio su Joris Ivens). Il neorealismo come essenza e come missione del cinema; l’idea zavattiniana come modello esportabile fino ai margini delle possibilità cinematografiche, dal cinema movimentista all’underground. Rossellini, un altro padre neorealista che avrebbe saputo parlare a generazioni di cineasti “arrabbiati” e iconoclasti, scriveva (negli stessi anni di Zavattini) che era tempo di «prender conoscenza del mondo in cui si vive» e avrebbe continuato a insistere sulla necessità di questa presa di conoscenza/coscienza anche nei suoi scritti più tardi, al tempo del rifiuto programmatico del cinema e della ricerca di un’altra autocoscienza filmica. Il cinema come strumento di conoscenza e come misuratore della coscienza critica e sociale: più che come conaissance, avrebbe scritto Mitry citando Claudel, il cinema come co-naissance, come nascita, come vita.