
Se il mito è da una parte racconto di fondazione, sacrale e sospeso dalla storia, e dall’altra forma originaria di narrazione, allora è possibile leggere la storia delle immagini attraverso questa doppia declinazione del mito. Se il cinema è anzitutto stato capace di attingere alle molteplici narrazioni mitiche per ricavarne mondi, contesti, soggetti e storie, esso si è anche sempre interrogato sulla forza e la potenza sacrale del mito, sulla sua capacità, cioè, di essere “immagine” nel senso pieno del termine. Il mito provoca «la resurrezione in forma di narrazione di una realtà primigenia, che viene raccontata per soddisfare profondi bisogni religiosi, esigenze morali», come affermava Bronislaw Malinowski, dunque si colloca in uno spazio-tempo separato dalla storia. Esso non è però fuori dal mondo, perché agisce in esso, permeando credenze e modalità di vedere se stessi e il proprio rapporto con ciò che è fuori di sé. Soprattutto, esso è in stretto rapporto con l’ordine del mondo, poiché ogni narrazione mitica è una spiegazione del mondo, della sua fondazione e delle sue leggi. La doppia declinazione del rapporto tra cinema e mito implica dunque un diverso approccio al problema; approccio che può essere esemplificato in alcune direzioni di ricerca, che delimitano campi possibili dell’interrogazione.
Mito come origine di narrazioni. Nella prima forma (il mito come origine di narrazioni cinematografiche) l’immagine è chiamata a dare corpo a dei ed eroi, esseri antropomorfi, spesso
immortali ed onnipotenti, che intervengono nelle vicende umane, rendendosi responsabili autori di creazione e distruzione. Da Méliès alla tradizione del peplum italiano degli anni sessanta, fino alla rilettura hollywoodiana recente (da Scontro di Titani di Desmond Davis del 1981 a Immortals di Tarsem Singh, 2011), i miti omerici o virgiliani convivono con le storie di Esiodo e le leggende di eroi come Ercole, le tragedie di Sofocle ed Eschilo e la tradizione del mito classico greco e romano.
Nel passaggio dal mito alla narrazione cinematografica, il primo perde di solito la valenza sacrale sospesa nel tempo per attualizzarsi in una forma che lo rilancia come spettacolo, come pura esigenza del fantastico. La prima direzione del rapporto è dunque lo svelamento del fantastico cinematografico nella sua capacità di mostrare, come diceva tra gli altri Bazin: «La contraddizione fra l’oggettività irrecusabile dell’immagine fotografica e il carattere incredibile dell’avvenimento». È dunque qualcosa che ha a che fare con la specificità stessa del cinema, del suo rapporto sempre aperto tra l’ordinario e lo straordinario.
Mito come origine dell’immagine. La seconda forma, la seconda declinazione del rapporto indaga, invece, la potenza creatrice del mito, la capacità cioè del cinema di mettere in gioco nell’attualità di un corpo o di un’immagine, la forza simbolica della narrazione mitica. Da questo punto di vista il movimento dell’immagine è sempre un movimento a ritroso. Essa riscopre in se stessa la capacità di essere qualcosa di sospeso nel tempo, qualcosa la cui forza risiede nelle origini stesse di ogni racconto. È il percorso pasoliniano degli anni sessanta del Novecento, in cui, in film come Edipo Re (1967) o Medea (1969), si ripercorrevano le narrazioni fondatrici della cultura occidentale, per ritrovarne la forza primigenia, attraverso un lavoro sulle immagini intese come potenti condensatori di simboli e di rimandi ad un tempo fuori dal tempo, come appunto quello del mito. Dall’opera di Fellini a quella di Anghelopoulos e di Spielberg, il cinema si scopre come grande indagatore degli archetipi, secondo una prospettiva junghiana, o delle “forme originarie”, a volte nascoste in narrazioni apparentemente lontane, ma in realtà coscienti riattualizzazioni del potere costante del mito.
Il mito dell’immagine. La terza declinazione del rapporto tra cinema e mito riguarda uno slittamento semantico, un significato ulteriore che la parola “mito” porta con sé. Vale a dire l’esaltazione per un evento, un personaggio o una forma che nel corso del tempo assumono contorni quasi leggendari, “mitici” appunto. Da questo punto di vista, il cinema stesso è un potente dispositivo mitopoietico, esso crea i propri miti moderni (luoghi, personaggi, immagini ricorrenti), dalle figure del divismo cinematografico, spesso tragiche (Marilyn, James Dean) ai miti del viaggio, dell’erranza, della wilderness (il western di Ford o di Hawks) degli eroi e dei mondi creati da autori e saghe (Star Wars) che sono entrate nell’immaginario collettivo. Il cinema ha creato, plasmato, trasformato, ripreso, interpretato le forme del mito inteso come prodotto di una fantasia che penetra profondamente nell’immaginario di generazioni intere, a volte ricollegandosi alle più antiche narrazioni, a volte mostrando se stesso come grande macchina creatrice di miti. Ed è forse in questa ultima accezione (le cui immagini corrono trasversalmente lungo tutta la storia del cinema), che tale declinazione del rapporto tra cinema e mito rivela il suo senso più pieno.
Mythos come mimesis praxeos. Nella Poetica di Aristotele viene esplicitamente tematizzato il rapporto tra mythos, intreccio, e imitazione dell’azione. Il mythos in questo quarto senso è stato una delle vie di formazione principale del senso nella rappresentazione cinematografica: non solo matrice di una costruzione finzionale del discorso che si oppone a quella logica, ma anche istanza che si contrappone al puro mostrare, al “documentare” come disposizione iscritta nel dispositivo cinematografico stesso. Pensare dunque il rapporto tra racconto di una storia in quanto intreccio (mythos, appunto) e istanza di “mostrazione” è pensare una questione cruciale del cinema.
Mito, storia, politica. Quando il cinema si è configurato (ed è una quinta direttrice di articolazione del rapport cinema-mito) come "macchina mitologica" (secondo la terminologia di Furio Jesi, creata a partire dal suo dialogo con un mitologo come Kerenyi; vedi Letteratura e mito e Materiali mitologici), la politica e il nesso storia-immaginario hanno interagito con il potenziale mitizzante delle immagini. I totalitarismi hanno "proiettato" sullo schermo le forme mitiche che ne fondavano la pretesa egemonica sulle masse. I film di Riefenstahl per il nazismo, e film come Scipione l'Africano o La corona di ferro per il fascismo ne sono esempi. Il passato storico si amplifica così come favola mitologica e come mitizzazione di una origine della razza; mentre l'epopea eroica e i miti del ritorno e della frontiera si incarnano, nel caso del mito americano e della sua fondazione democratica, in una forma mitologica precipuamente cinematografica come il western. La scuola di psicologia storica di Vernant, Detienne Vidal-Naquet che ha indagato i nessi tra politica, antropologia e mito, può inoltre indurre a porre in tale orizzonte un cinema come quello degli Straub, a partire dal loro ripercorrere in anni recenti la scrittura mitopoietica dei Dialoghi con Leucò di Pavese, anche nella direzione di un rapporto mito-paesaggio-natura-storia (o post-pre-storia) presente in autori italiani recenti come Piavoli, Cipri/Maresco, Martone, Gaudino.
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