N. 47: “VOCE”

L’avvento del parlato segna senza alcun dubbio la cesura più delicata nella storia del cinema – pari solo al passaggio dal formato analogico a quello digitale. Sin dalle origini teorici e registi esprimono timori e perplessità nei confronti di una parola che rischia di assorbire con la sua presenza il movimento plastico dell’immagine, sperimentato sino a quel momento dalle scuole avanguardiste (prima fra tutte quella sovietica di Ejzenštejn, Vertov, Pudovkin). C’è chi come David Griffith e Rudolph Arnheim pensa che si tratti di un fenomeno passeggero destinato ad esaurirsi di lì a qualche anno, scongiurando il paradosso secondo cui un atto biologico «di primo piano» come quello che lega il corpo e la voce possa tradursi in un atto «di secondo piano» come quello messo in scena dal cinema; chi come Charlie Chaplin e René Clair o, più avanti, Stanley Donen, Gene Kelly, Billy Wilder, esorcizza nelle sue opere la rivoluzione formale prevista da corpi sulla ribalta all’improvviso parlanti; chi ancora, come Siegfried Kracauer, teorizza le diverse possibilità di contrappunto tra voce e immagine, giungendo anch’egli alla conclusione che affinché questo funzioni il linguaggio verbale è chiamato a soccombere alla «fallacia ontologica» per cui è l’immagine a dover guidare il racconto filmico.

A schiacciare l’immagine sulla parola (e viceversa) è tuttavia in primo luogo la sincronia tra questi due livelli. Se al contrario viene messa creativamente in gioco un’«intelligenza verbale» (André Bazin) capace di slegare il senso della rappresentazione da quello portato su di essa dalla voce – questo proponeva il celebre Manifesto dell’asincronia del 1928 – l’incremento di realtà viene incrinato dal movimento disgiuntivo della parola nei confronti del piano visivo e al contempo dà vita a fecondi contrappunti in grado di aggiungere un interessante effetto di senso alla narrazione. Per questo, fin dagli anni Trenta, a giocare in modo “intelligente” con il livello visivo è soprattutto la voce fuori campo, fisicamente disunita dal corpo dell’immagine e dunque predisposta ad instaurare con quest’ultimo un dialogo che mantiene una sua autonomia dalla rappresentazione («e-autonomia», la definisce Gilles Deleuze), costruendosi come linea indipendente e allo stesso tempo prossima alla pellicola, costantemente sul punto di incontrarsi con essa in momenti di profonda e inaspettata convergenza. Dai primi esperimenti di Cavalcanti, Buñuel, Wright, Grierson alle classiche voci «acusmatiche» (Michel Chion) in film decisivi come Il testamento del dottor Mabuse di Fritz Lang, Il mago di Oz di Victor Fleming o, molto più avanti, Psycho di Alfred Hitchcock, si arriva alla modernità e al definitivo abbandono di una linearità della storia – e di conseguenza di un incontro coerente tra voce e immagine – in autori come Alain Resnais, Marguerite Duras, Éric Rohmer, Robert Bresson, Jean-Luc Godard, Chris Marker, Agnès Varda, Pier Paolo Pasolini. La dislocazione della voce in un diverso spazio-tempo fa sì che essa viva una «dislocuzione» (Marie-Claire Ropars-Wuilleumier) nei confronti di uno spazio rappresentativo vissuto da un tono ormai ambiguo, dubbioso, opaco, ben distante dall’asetticità o dalla trasparenza richiesta alle voci over hollywoodiane o a quelle tipiche del formato cinegiornalistico.

La contemporaneità da questo punto di vista apre uno spazio di riflessione particolarmente interessante: in un panorama come quello odierno, in cui il racconto (di finzione o di realtà) vive un costante impasto mediale tra diversi formati e, dunque, tra diverse linee narrative, l’elemento della parola – e della voce che la incarna – crea a cavallo dell’immagine filmica il principale scarto a partire dal quale l’autore lavora il senso del racconto, in un rapporto «disautomatizzato» (Pietro Montani) tra immagine e linguaggio che fa della componente vocale una delle principali nell’intreccio mediale in cui è coinvolta. Se oggi ad essere preponderante è un «visuale» (Serge Daney) che stordisce lo spettatore fino ad asciugarne le prestazioni intellettuali, la voce ricostruisce e preserva, negli «ambienti mediali» cui danno vita la maggior parte degli oggetti filmici di oggi, una dimensione dell’“indicibile” e dell’“immaginabile” precisamente grazie alla sua disintegrazione del corpo (quello fisico del parlante o quello simbolico dell’immagine a cui si riferisce) e alla sua ricerca continua di un’ulteriore “alterità” da innestare nella narrazione. Tracciamo di seguito quattro possibili linee di ricerca attorno al tema della voce.

Voce come evento. Riprendendo il termine del filosofo francese Alain Badiou, il quale definisce “evento” ciò che procura una rottura nella continuità temporale della vita producendo l’emersione di un nuovo possibile senso, la voce sembra spesso rivestire nel cinema il ruolo di artefice di un movimento discontinuo per cui la linea della narrazione è portata spezzarsi e ad aprire un diverso spazio evenemenziale del racconto. Dallo scontro tra voce e immagine nasce cioè spesso un’«identità narrativa» (Paul Ricoeur) non prevista e che pure fonda nell’attrito dialettico tra due piani il profilo di un racconto, o più nello specifico di un personaggio. Questo accade sin dalle origini della sperimentazione vocale sull’immagine, in particolare quella di carattere poetico (pensiamo a film come Aubervillers di Eli Lotar, Il canto dei fiumi di Joris Ivens, Night mail di Henry Watt e Basil Wright). Le voci liriche degli anni Trenta sono le dirette antenate di quelle della modernità, in cui si verifica una disgiunzione sempre più marcata ad opera di una voce che avvolge la rappresentazione procurando su di essa un effetto straniante (India song di Marguerite Duras, L’anno scorso a Marienbad e Le chant du styrène di Alain Resnais, San soleil o La jetée di Chris Marker, La rabbia di Pier Paolo Pasolini, fino ad esempi più recenti come Les glaneurs et la glaneuse di Agnès Varda o Nostalgia della luce di Patricio Guzmán). In epoca recente sembra essere l’incontro con la pratica del foundfootage una delle forme espressive in cui in modo più evidente si manifesta il potere evenemenziale del contrappunto voce-immagine: in una scia che passa per registi di orizzonte internazionale come Jonas Mekas, Péter Forgács, Jonathan Caouette, Miguel Gomes, Werner Herzog, nel cinema italiano contemporaneo non mancano cineasti (Pietro Marcello, Alina Marazzi, Marco Bellocchio, Alice Rohrwacher, Wilma Labate, Costanza Quatriglio) che lavorano al montaggio a partire da una narrazione orale in sovrapposizione ai materiali di repertorio in modo che dal loro incontro emerga una storia, talvolta giocando finzionalmente sull’incontro tra i due piani.

Voce come ricerca dell’altro. La voce in quanto espressione dell’altro è sintomo di quella «zona d’ombra» (Jean-Louis Comolli) che ogni buon documentario è chiamato a lasciare intatta. Sul presupposto di questa opacità e di un radicamento del racconto a partire da un “fuori campo” che è legittimo e anzi determinante non mostrare, le voci del cinema del reale (ancora una volta a partire dalla modernità per arrivare al contemporaneo) danno mostra di elaborazioni formali particolarmente interessanti. La voce off del documentario si afferma negli anni Trenta secondo quello che Bill Nichols definisce un carattere «espositivo» della narrazione, ovvero volto, in un genere come quello del cinegiornale, esclusivamente all’illustrazione delle immagini mostrate dal footage visivo da una posizione divina che non si presta ad alcuna messa in discussione. A questa tendenza si oppone il desiderio di operare al contrario un «trattamento creativo» (John Grierson) della realtà che coinvolga anche e soprattutto il piano sonoro, capace più delle altre componenti espressive di operare una «drammatizzazione» sulla forma che lavori sui procedimenti dialettici interni ad essa (spesso a partire da un utilizzo lirico della voce). Con l’arrivo della presa diretta alla fine degli anni Cinquanta ha inizio una negoziazione fino ad allora sconosciuta con dei corpi nell’immagine finalmente “parlanti” (la modalità partecipativa dell’intervista, prendiamo ad esempio film come Chronique d’un été di Jean Rouch o Comizi d’amore di Pasolini) e dall’altra un’“osservazione” diretta del reale (il «cinéma-verité») che, se per un breve arco di tempo produce il rifiuto della narrazione dal fuori campo, presenta come contraltare l’intervento soggettivo della voce off del regista che comincia a riflettere sulle modalità e le falle del suo stesso processo di documentazione. È la voce a rendere dunque sempre più evidente una spinta performativa da parte di autori – si pensi al cinema di João Moreira Salles, Errol Morris, Guy Maddin, ma anche a quello italiano di registi come Andrea Segre, Leonardo Di Costanzo, Giovanni Piperno, Agostino Ferrente, Marco Bertozzi –, che esplicitano il proprio coinvolgimento emotivo nell’operazione testimoniale procedendo ad una divisione sempre meno marcata («sfumata», la definisce Nichols) tra il tentativo di registrare un piano oggettivo di realtà ed una costruzione espressiva che costruisce su di esso una specifica interpretazione e, dunque, un esplicito impianto estetico.

Voce come puro suono. La voce, anche quando catturata nell’intreccio mediale del film, sembra riuscire a trattenere il carattere di “carnalità” tipico della sua esposizione orale, conservando l’instabilità emotiva e/o materiale della sua performance. La vocalità del cinema presenta oggi spesso una forte pulsione al regresso verso una matrice orale che la porta a liberarsi dai vincoli scritturali avvicinandola alla materialità del suo corpo fonetico – una «vocalizzazione» del logos, capace di tornare alla dimensione prelogica del discorso (Adriana Cavarero, Eric Havelock, Hélène Cixous). In molti casi ad essere privilegiato nella dimensione “spettacolare” dell’opera è il piano soggettivo-emotivo di una voce che “canta” la sua storia – in una nuova forma di epos (condannata già da Platone e poi da Aristotele nella Poetica come espressione svincolata da un orizzonte visivo che ne testimoniasse la veridicità e dunque spesso associabile alla menzogna) –, dirigendo fisiologicamente, nella libertà senza redini della dimensione orale, il proprio pensiero. Dai film non fatti pasoliniani (Appunti per un’Orestiade africana in particolare, dove il momento «orale» e brutale del cinema incontra una parola originaria come quella tragica) al cinema demartiniano degli anni Sessanta (Stendalì di Cecilia Mangini ad esempio, in cui la voce diventa canto); dall’intervento puramente emozionale della voce in un film come Su tutte le vette è pace di Yervant Gianikian e Angela Ricci-Lucchi all’«ontologia monista» (Roberto De Gaetano) messa in campo da cineasti come Michelangelo Frammartino, Alberto Fasulo, Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, che riallineano sul piano di immanenza prodotto dal cinema l’elemento vocale trattandolo alla stregua degli altri suoni e incorporandolo in un ambiente naturale dal quale non è divisibile. In tutti questi casi a contare più del profilo semantico è la «vegetazione vocale» (Michel De Certeau) fatta di errori, tentennamenti, sospiri, che di solito viene al contrario estirpata dal discorso. Questo tanto più quando l’immagine è tolta e il racconto si consuma nel buio uterino dell’inquadratura, da Blue di Derek Jarman a Branca de neve di João César Monteiro. La trasgressione nei confronti di uno scheletro logico-discorsivo irreggimentato in un piano simbolico è ascrivibile inoltre il più delle volte ad una voce femminile (Kaja Silverman, Mary Ann Doane, Britta Sjogren, Stella Bruzzi), più direttamente legata al «pensiero sensuoso» che precede l’interdizione da parte di una forma discorsiva conducendo la traiettoria della parlante verso una voce «tutta interiore» (Jacques Derrida) e abbandonata ad un flusso di coscienza irrazionale e instabile quanto, nel cinema contemporaneo, la rappresentazione che accompagna.

Voce come medium. Oggi possiamo affermare che quella del cinema sia una «scrittura estesa» (Pietro Montani) tanto quanto quella del web, capace di integrare diversi formati mediali e di costruire rapporti inesplorati tra la dimensione dell’immagine e quella del linguaggio. L’elemento vocale, in oggetti intermediali come quelli contemporanei, diventa una delle componenti “scritturali” dell’opera filmica. Questo tanto più quando incarna letteralmente un testo – pensiamo al cinema di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet o di Chantal Akerman, ma anche a cineasti italiani che nell’ultimo ventennio hanno costruito su questa cifra i loro lavori: dal testo epistolare, passando per quello diaristico e arrivando a forme di iscrizione fisica della voce “parlata” nella cornice dello schermo, sotto forma di didascalie. O, in alternativa, il lavoro mediale dell’elemento vocale e la sua «integrazione» nella scrittura del testo filmico si rivela in quanto operatore di sfalsamenti temporali e spaziali all’interno della narrazione (corpi che non corrispondono alla voce che “li” parla, voci passate incorporate all’interno di figure presenti sulla scena, e così via). O ancora nella produzione recente, nazionale e internazionale, la voce trova un nuovo e diverso supporto figurativo nell’animazione, che sembra liberare le immagini del discorso orale – dai documentari di guerra di registi come Ari Folman o Rithy Panh, passando per le animazioni di Simone Massi e arrivando al recentissimo fenomeno di Zerocalcare e ad una serie come Strappare lungo i bordi, in cui è il monologo logorroico ed egocentrico dell’autore ad animare il racconto disegnato. In tutti questi casi la vocalità diventa “medium tra i media”, richiamando nella mente dello spettatore qualcosa di simile a ciò che è abituato a vedere in ipertesti creativi come quelli prodotti da un video di Tik-tok o da una storia Instagram e allo stesso tempo svolgendo il ruolo arcaico di “cantastorie”, ancorato ad un «bisogno di racconto» capace di fuggire l’impianto scritturale. Nella realtà che viviamo in prima persona ci stiamo abituando in effetti all’ascolto della pura voce, slegata da un supporto visivo e vicina alla nostra intimità solo in forza della propria emanazione. Pensiamo a quanti oggi hanno pressoché abbandonato la canonica forma scritta per inviare all’altro un messaggio vocale o dialogare attraverso social come Clubhouse, “stanza” virtuale in cui persone tra loro sconosciute comunicano lasciandoci tracce esclusivamente vocali. O pensiamo ad un trend contemporaneo come quello dei Podcast, rappresentativi se vogliamo di entrambe queste tendenze: da una parte il potere mediale di una voce che può inserirsi, al contrario di un’immagine, dentro un movimento di vita fatto di azioni simultanee come quello quotidiano; dall’altra la dimensione intima che viene a crearsi (in modo differente ad esempio dall’ascolto radiofonico) tra l’“io” che ascolta e il “tu” che parla, collegati da un auricolare che li rende prossimi, divisi dal resto del mondo e tendenti a ricreare una dimensione di interazione primordiale in cui chi parla risulta talmente vicino al sé da fondersi con la sua percezione della realtà esterna (Martin Spinelli, Dann Lance). Questo stesso “patto vocale” vive internamente pratiche come quella degli audiolibri (trovata anch’essa relativamente recente), in cui ad avvicinarsi alle nostre intimità sono le voci conosciute dei grandi attori, o format seriali innovativi come Calls di Fede Álvarez, tutto basato sull’interazione tra voci acusmatiche e disegno grafico computerizzato. Questo “ritorno alla voce” si è tanto più manifestato con l’avvento della pandemia da Covid-19, un evento spartiacque che, anche a proposito di questa determinata circostanza, risulta avere un ruolo chiave. In mancanza dei corpi vivi, negli ultimi due anni sono state spesso le voci a venire in soccorso della nostra nostalgia di sentirci vicini al prossimo o semplicemente vivere il racconto di quell’“altro” da cui tanto spaventosamente venivamo distanziati. Pensiamo a lavori filmici come Le storie che saremo di Ginko Film, Quattrostrade di Alice Rohrwacher, Rebibbia Quarantine di Zerocalcare, tutti tentativi di avvicinare un reale inesorabilmente sfuggente attraverso la voce. Ma quest’ultima, in ambito teatrale ad esempio, è servita anche a soppiantare una presenza scenica in quel momento impossibile – pensiamo ai radiodrammi divulgati dagli artisti e dalle maestranze del Teatro Valle prima attraverso emittenti radio e in seguito in filodiffusione negli spazi svuotati del teatro; o ad un progetto come Radio India, ideato dal gruppo Oceano Indiano con le compagnie residenti del teatro India e l’artista Daria Deflorian, in cui sempre si è ripensato lo spazio scenico attraverso la drammatizzazione dello spazio vocale. La nostalgia dei corpi si è trasformata in un recupero di una dimensione aptica della voce che allo stesso modo si stava imponendo, già prima del virus, nei domini della comunicazione quotidiana.