
Per me la finzione è uno strumento d’accesso alla verità
Olivier Assayas
Il campo semantico del termine finzione apre vaste ramificazioni concettuali messe ciclicamente in tensione. L’etimologia latina del termine che allude a una pratica di modellazione – plasmare, dare forma ai materiali nell’ars fingendi – contempla già un’accezione astratta nell’atto dell’immaginazione/raffigurazione e nel suo rovescio negativo della produzione potenziale di figure ingannevoli/dissimulatorie. Pertanto, l’antica riflessione teorica sulla finzione associata all’espressione artistica (dal mythos aristotelico sino alla letteratura, dalle arti figurative sino all’astrattismo) ha assorbito e restituito durante i secoli quest’originaria ambiguità traducendola in un fertile dibattito filosofico e culturale (da Platone a Diderot, da Nietzsche a Deleuze, da Valéry a Croce) che il cinema ha straordinariamente intercettato ragionando direttamente o meno sulla sua essenza di F for Fake.
La teoria delle immagini, infine, ha messo a fuoco con molteplici sfumature la dialettica originaria tra una linea di pensiero idolatrica (la costruzione, la fascinazione e i pericoli dei simulacri del mondo); una linea iconica che comprenda l’apertura di un varco per accedere a verità invisibili (oltre l’esperienza sensibile, come nelle avanguardie pittoriche e cinematografiche del Novecento); infine una linea mimetica che attivi uno sforzo veritativo, ossia una praxis, cercando di testimoniare la contingenza dei fenomeni nella loro messa in forma (con connotazioni etiche e politiche, pensiamo solo al neorealismo italiano).
La civiltà delle immagini tecniche nella quale siamo immersi confrontandoci con ambienti mediali saturi di schermi e display (in particolar modo nell’attuale post-pandemia) ci spinge a indagare con maggiore convinzione la natura complessa di ogni doppio finzionale e i possibili nuovi spazi di apertura al regno del sensibile. Finzione, pertanto, è un termine polisemico che permette di individuare macro-questioni teoriche o studi di caso paradigmatici che questo numero della rivista vuole sondare e rilanciare.
Finzione/simulazione. La finzione filmica come processo che produce un’illusione di realtà in un simulacro del mondo riprodotto come copia senza referente. Quindi immagine come phantasmata che surroga i fenomeni istituendo una differente realtà illusiva e affabulatoria. Una linea di pensiero, declinata in accezioni anche molto differenti, che ha attraversato le riflessioni critiche di Augé, Debord, Lyotard, Baudrillard, Perniola. Dalle strutture formali del découpage classico e dell’illusione di realtà, sino alla perdita totale del referente nella creazione di mondi digitalizzati nel blockbuster contemporaneo (da Il Mago di Oz ad Avatar, per intenderci) la messa in scena finzionale tende a riformulare in maniera sostanziale il mondo fenomenico. Quindi la progressiva mediatizzazione dell’esperienza spinta sino alle derive più estreme della digital performance (dagli albori del nuovo millennio in Matrix, alla realtà virtuale di Ready Player One) convive con una coalescente logica dell’immediatezza trasparente colta nella pervasività di deleghe tecniche sempre più fuse al corpo umano e confuse al nostro sguardo (pensiamo alla riflessione sul first person shot del seminale Strange Days del 1995 oppure di film e serie recenti come Anon e Black Mirror).
Finzione/verità. L’esigenza di confrontarsi con la realtà che ci circonda è sempre stata una istanza urgente posta dal cinema (pensiamo agli scritti di Kracauer e Lukács), a cominciare dall’idea che la sua base fotografica e riproduttiva favorisse la propensione al rispecchiamento del mondo. Nel pensiero di André Bazin il discorso sulla finzione filmica intesa come lavoro di messa in scena si arricchisce di una riflessione estetica su una possibile esplorazione fenomenologia della realtà: «L’immagine conta prima di tutto non per ciò che essa aggiunge alla realtà, ma per ciò che ne rivela». La possibilità di aprire un varco, una finestra sul mondo, pertanto, diventa un processo che non si oppone all’attivazione di una istanza narrante, rendendola bensì capace di integrare «il tempo reale delle cose». Da Rossellini a Renoir a tutte le successive Vague europee, lo stile moderno problematizza la relazione tra finzione e realtà contingente riflettendo apertamente sulla mediazione necessaria di uno sguardo che formalizzi il mondo. Ecco perché la sopravvivenza contemporanea di questo stile moderno si sostanzia sempre più in una crescente apertura di credito concessa agli scarti tra immagini e media differenti (pensiamo solo all’utilizzo della low definition digitale o delle immagini d’archivio in registi come Olivier Assayas, Céline Sciamma, Radu Jude, Lav Diaz, Pablo Larraín o Jia Zhangke) in un cinema politico che tenti ancora oggi di incidere sulle cose del mondo. Pensiamo infine al cosiddetto “cinema del reale” italiano che complica la tradizionale etichetta di “cinema documentario” sperimentando nuovi rapporti possibili tra immagini e realtà attraverso una dialettica consapevole ed esplicita tra regimi finzionali del racconto e tracce documentali (da Pietro Marcello ad Alina Marazzi, da Michelangelo Frammartino a Roberto Minervini, da Alberto Fasulo a Alessandro Comodin).
Finzione/esperienza. A partire dalle teorie sul significante immaginario di Metz e sul dispositivo cinematografico di Baudry, per arrivare alla semio-pragmatica di Roger Odin, la ricezione dei prodotti audiovisivi è stata studiata anche come pratica sociale in relazione al ruolo decisivo dello spettatore. Successivamente – da un lato con la nascita dei cultural studies, dall’altro con il dialogo sempre più stretto con le scienze sperimentali neurocognitive – la finzione come categoria posta tra testo e contesto ha assunto sempre più rilevanza nel dibattito contemporaneo. I discorsi sulla persistenza del cinema nei nuovi ambienti mediali, del resto, partono spesso dall’esperienza dello spettatore che è «un atto cognitivo che si radica e coinvolge sempre un corpo (è embodied), una cultura (è embedded) e una situazione (è grounded)» come scrive Francesco Casetti ne La galassia Lumière. Riflettere sull’esperienza di visione delle piattaforme OTT come Netflix, Amazon Prime o Disney Plus, per esempio, ci consente di arricchire il dibattito contemporaneo sui nuovi regimi finzionali sempre più ibridati e convergenti che fanno della narrazione transmediale una pratica decisiva per decodificare l’immaginario del XXI secolo (pensiamo al Marvel Cinematic Universe e alla sua recente espansione sulle piattaforme sperimentando nuovi formati seriali da WandaVision a The Falcon and the Winter Soldier).