N. 42: “TECNICA”

Il rapporto tra le immagini e la tecnica non ha smesso di interrogare studiosi, pensatori e operatori dell’immagine. A partire dai saggi inaugurali di Benjamin, Heidegger e Adorno e Horkheimer è emerso chiaramente come il rinnovato impatto delle tecnologie sulla produzione dell’immagine non toccava solo gli aspetti creativi o l’esperienza dello spettatore, cui è chiesto di disporre di prestazioni inedite e di acquisire nuove competenze. Attraverso le immagini la tecnica moderna veicola una visione originale del mondo. Se Benjamin parla del cinema e della fotografia come di immagini capaci di provocare choc percettivi e di impiantare nuove innervazioni tecniche nella coscienza del soggetto, Adorno e Horkheimer pensano il cinema (e non solo) come un’industria culturale che espropria il pubblico della sua capacità di dare senso all’esperienza; Heidegger concepisce invece la modernità come l’epoca della riduzione del mondo alla sua immagine.

All’incrocio tra teoria e pratica dell’immagine vediamo come diversi registi-teorici delle avanguardie abbiano tematizzato l’elemento tecnico del cinema: Vertov si prefigge di “cogliere la vita sul fatto” attraverso la macchina da presa e di pratica un “montaggio degli intervalli” che dipende fortemente dal carattere tecnico del cinema, che ritroveremo in Pelešian. Peraltro, l’idea di testimoniare la crescente tecnicizzazione delle forme di vita trova riscontri, non sempre congrui con il progetto di Vertov, nel cinema tedesco coevo. Si pensi a Metropolis (Lang) fino a Berlin. Die Symphonie der Grossstadt (Rutmann). Epstein dal canto suo teorizza tra i primi un nesso tra percezione, organo di senso (l’occhio) e la tecnica. Ejzenstejn non si limiterà ad affrontare la questione dal punto di vista della percezione, ma penserà il montaggio come vero e proprio procedimento di pensiero. Tale nesso non smetterà di interrogare intellettuali e filosofi, alimentando l’idea di una coscienza (Bergson; Deleuze), e perfino di un inconscio (Baudry) originariamente organizzati come un dispositivo tecnico e sempre riorganizzabili da esso in linea di principio.

Tali questioni hanno avuto ampi sviluppi nella seconda metà del Novecento e oltre. Diverse sono le ipotesi formulate, partendo dalla più pessimista: un’esperienza altamente tecnicizzata impedirebbe al soggetto della “terza rivoluzione industriale” di cogliere la catastrofe in atto a causa della povertà della sua immaginazione (Anders). L’immagine, in primis televisiva, potrebbe anche essere il supplemento “artefattuale” degli eventi storici Derrida) – si pensi a Blob – ovvero il supplemento “ipomnestico” della memoria (Stiegler): la questione degli archivi digitali e virtuali suscita l’interesse di teorici e artisti (Bookchin). Sul versante del cinema contemporaneo, ad esempio nell’ultima produzione di Bellocchio e di Kiarostami o nei documentari di Moore, è stata riscontrata la possibilità di pensare una nuova “etica della forma” che metta in carico il compito della testimonianza alle tecnologie digitali (Montani). A ciò si lega anche un’intensa produzione documentaria (Delbono, Ferrente) in cui la sperimentazione dei nuovi dispositivi diventa il perno su cui ricostruire una narrazione del reale (Cecchi; Dottorini). Le immagini, attraverso la televisione, la fotografia e il documentario, ma oggi anche in rete sembrano presiedere a processi di couplage tra gli utenti e i dispositivi tecnici che ne implementano la presenza, individuale o collettiva, in un’infrastruttura tecnica di trasmissione ed elaborazione di informazioni (Flusser). I lavori di Harun Farocki sono esemplari in questo senso. Questo nuovo modo di trattare l’immagine concepisce il mondo come già predisposto ad accoglierle, essendo ormai invaso da supporti e schermi di ogni genere (Carbone). A questo filone si collegano anche studi e ricerche sul campo che definiremmo oggi come “archeologia dei media” (Parrikka; Pinotti-Somaini). In senso allargato si tratta di rintracciare i passaggi che collegano un medium a un altro, insieme ai lasciti di senso avvenuti in tali passaggi. Si pensi a come lo sviluppo delle tecnologie di visualizzazione applicate alla guerra è coevo alla nascita del cinema (Virilio) o all’eterogenea e a tratti inquietante diffusione dei droni nel panorama contemporaneo (Chamayou). Questa linea ha trovato notevoli riscontri nel cinema, sia di finzione che documentario, da Zero Dark Thirty (Bigelow) e American Sniper (Eastwood), fino ai documentari di D’Anolfi e Parenti, per fare solo un esempio.

In tale contesto il mondo dell’arte offre sempre più spesso esperienze immersive e ambienti virtuali, dove praticare l’immagine quasi come una simulazione di realtà (Diodato): ne risulta un rimescolamento dei ruoli tra autore, attore e fruitore assai complessa – si pensi a Holy Motors di Léo Carax – non più riconducibile alla sola dinamica dello “spettautore” (Lischi), ma che presuppone l’idea di una rete tecnica alla base di tutti i momenti di cui si compone la vita di un’immagine. Alla circolazione attraverso una rete si collega anche l’idea di pensare la creazione di immagini come una produzione di valore da immettere sul mercato (Szendy) su cui si è soffermata la recente mostra Le Supermarché des images (Szendy-Alloa-Ponsa) svoltasi al Jeu de Paume di Parigi. All’immagine vista come operatore di una rete (Ardovino) possiamo collegare anche le recenti teorie dei media come “mediazione radicale” (Grusin), “mediascape” (Casetti) e più in generale come “ambiente mediali” (Montani-Cecchi-Feyles). Si inserisce qui l’interesse dell’antropologia (La Cecla) per il modo in cui le immagini e i dispositivi suppliscono la presenza reale e in questo modo svolgono una funzione affettiva imprescindibile: si pensi al recente lockdown e all’uso diffuso e specializzato (Zerocalcare tra gli altri) di immagini e suoni: fumetti, disegni animati, performance online ecc. Siamo di fronte a una nuova evoluzione dell’“arte fuori di sé” (Balzola-Rosa) posta all’incrocio tra creatività e tecnica (Carboni-Montani), di cui i musei narrativi e in generale i lavori di Studio Azzurro sono un caso esemplare.

L’idea di una “tecno-estetica” più originaria sia dell’estetica che della tecnica descriverebbe altresì la vita senziente dell’individuo dal punto di vista delle sue prestazioni tecniche (Simondon): in questo orizzonte trovano spazio pratiche terapeutiche dell’immagine (Deligny) che ne rimettono in gioco lo stesso statuto di medium e il carattere intersoggettivo e interattivo della sua fruizione, come accade in sperimentazioni a cavallo tra medicina e cinema come Memofilm (Grosso; Montani). Questa pratica tecno-estetica dell’immagine può essere quasi vista come l’esternalizzazione tecnica di un lavoro dell’immaginazione (Velotti) che mette in opera la embodied simulation inerenti ai nostri processi cognitivi ed emotivi (Gallese-Guerra) per sfruttarla o per far emergere un livello della significazione più profondo, pre-linguistico (Montani), come accade ad esempio negli ultimi film di Godard (Adieu au langage, Livre d’images).

Possibili temi degli articoli proposti possono essere anche, ma non esclusivamente:

  • Come il cinema, a partire dalle avanguardie, ha tematizzato il modo in cui la tecnica ha trasformato la percezione della realtà o le forme di vita;
  • L’idea che l’immagine porti con sé un potenziale di choc percettivo e sia capace di impiantare, nella percezione o nella coscienza, una nuova innervazione tecnica;
  • Il ruolo della tecnologia nel rendere possibili processi di rimediazione tra formati d’immagine diversi e il suo contributo alla definizione di una immaginazione intermediale;
  • Il modo in cui filosofie e teorie hanno ripensato l’esperienza alla luce delle sue trasformazioni tecniche moderne e l’impatto delle immagini in questa riflessione;
  • La modificazione delle relazioni e delle dinamiche tra l’autore, il pubblico e gli attori alla luce della mediazione del dispositivo tecnico;
  • La sperimentazione dei nuovi dispositivi mobili e delle tecnologie interattive e di rete, insieme alle loro potenzialità di senso nel campo di un racconto del reale;
  • La questione della trasformazione dell’archivio e la sua virtualizzazione come nuova sfida etica, estetica e politica;
  • L’intreccio tra produzione di immagini, produzione di valore e produzione di forme di vita;
  • Gli usi terapeutici delle immagini prodotte tecnicamente e il loro impatto nel ripensare un’etica o una politica degli affetti.