N. 39: “Cornice”

“A quanto so, fui io il primo a estrarre il quadro dalla cornice ponendolo in rilievo rispetto ad essa invece di inserirlo in essa. Avevo osservato che un quadro senza cornice funziona meglio di un quadro incorniciato”.  Si pu  partire da questa breve osservazione di Piet Mondrian per mostrare come la cornice, da oggetto concreto, intimamente legato all’esistenza di un quadro, si trasformi in problema di ordine teorico, nella riflessione estetica e nella critica d’arte, proprio all’inizio del Novecento, quando cioè, essa viene destituita della sua funzione e della sua centralità in pittura.  

Risale al 1902 un saggio di Georg Simmel, La cornice del quadro. Un saggio estetico, che riconosce alla cornice la dignità di problema filosofico e la interroga a partire da temi prettamente estetici: la questione del limite, per esempio, e la separazione che l’esistenza della cornice segna fra l’opera e il mondo che la circonda, in quanto garanzia di artisticità della prima. In virtù della separazione di cui è garanzia, la cornice si fa portatrice di una essenziale capacità sintetica, che consiste nella connessione interna degli elementi che compongono l’opera. Così intesa, la cornice è il gesto di cesura che consente di opporre la concretezza del mondo reale all’irrealtà dell’immagine artistica. Allo stesso modo, per , la cornice è il luogo in cui si mostra la contiguità fra l’oggetto artistico e l’ambiente in cui esso è collocato: ragione questa per cui alla cornice è stata riconosciuta, in più di una occasione, una natura ibrida e anfibia.

Giano Bifronte, proprio come il cinema, la cornice permette di individuare una lunga serie di questioni che è scopo di questo numero sondare. Una ipotesi, tra le altre, che il numero intende affrontare è infatti che, proprio in coincidenza della perdita della sua centralità in pittura, la cornice divenga una questione centrale per l’allora nascente arte cinematografica, riproponendosi in termini nuovi e intrecciandosi a problemi relativi alla costruzione dell’inquadratura e della composizione filmica. Non a caso, forse, Rudolf Arnheim, autore di un importante volume, Film come arte (scritto nel corso di un decennio, fra il 1930 e il 1940), ha ricondotto all’esistenza della cornice, in differenti forme artistiche, essenziali questioni di ordine percettivo: la relazione fra centro e periferia dell’immagine, così come quella fra figura e sfondo. La presenza – proprio come la sparizione – dell’elemento cornice richiama l’attenzione su un altro elemento essenziale alla comprensione di tutti i fenomeni artistici e della loro fruizione: lo spettatore, al cui sguardo è affidata la riuscita del funzionamento complessivo dell’opera.

Il rapporto fra il cinema e le altre arti. Nel modo in cui abbiamo cominciato a presentarla, la questione teorica che ruota attorno alla cornice è l’occasione per tornare a ripensare il rapporto fra il cinema e le altre arti, in primo luogo, come è facile immaginare, la pittura. In termini ejzenštejniani, si tratta qui di considerare i principi compositivi propri del cinema (dentro la singola inquadratura, così come nel legame che tiene unite due diverse inquadrature fra loro) come l’esito di uno sviluppo, fatto di permanenze e innovazioni, che dalla pittura conduce alla produzione dell’immagine filmica. Una lunga serie di studi – da Senso e non senso di Merleau-Ponty fino a L’occhio interminabile di Jacques Aumont – si sono occupati di questo rapporto. Le possibilità tecniche del digitale sono apparse, nelle intenzioni di molti registi, come l’opportunità imperdibile per far risalire genealogicamente l’origine dell’immagine cinematografica alla sua matrice pittorica, ancor prima che fotografica: è la tesi che anima l’intera produzione godardiana degli ultimi vent’anni, successiva alle Histoire(s) du cinéma.  È quanto mostrano, sebbene in forma diversa, film come La nobildonna e il duca (Rohmer, 2001) e Nightwatching (Greenaway, 2007), solo per fare due esempi. Alla stessa intenzione vanno forse ricondotti i numerosi progetti cinematografici che, ancora in anni recenti, hanno fatto del museo un luogo di indubbio interesse cinematografico: basti pensare, anche in questo caso a solo titolo di esempio, a film come Arca russa (Sokurov, 2001), Une visite au Louvre (Straub e Huillet, 2004) e National Gallery (Wiseman, 2014). 

I limiti dell’inquadratura e il fuori campo. In termini strettamente cinematografici, il tema della cornice richiama immediatamente questioni che hanno da sempre contribuito a definire lo statuto stesso della rappresentazione filmica. Pensare la cornice, in questo senso, significa interrogare problematicamente i limiti dell’inquadratura, come segnalazione inequivocabile dell’esistenza di uno luogo – il fuori campo – che eccede lo spazio della messa in scena, dentro o fuori di essa. Sono cornici tutte le superfici che, dentro l’inquadratura, individuano, isolandolo, uno spazio ulteriore, precluso allo sguardo, che funge in ogni caso da interrogazione per lo spettatore. Il noir è la forma cinematografica che forse, meglio di altre, ha fatto uso di cornici intese, in questa accezione larga, come figure del fuori campo interno. Da Vertigine (Preminger, 1944) a La donna che visse due volte (Hitchcock, 1954), l’esposizione di quadri e cornici è uno strumento utile alla mise en abyme della rappresentazione cinematografica: un mezzo per continuare a riflettere, ancora oggi, sulle potenzialità del dispositivo cinema, nel momento del suo radicale ripensamento.  

È ancora il fuori campo – inteso questa volta come l’altrove che eccede i limiti dell’inquadratura e comprende tutto lo spazio che non è (e non pu ) essere incluso all’interno dell’inquadratura stessa – a porre al cinema una delle sue questioni teoriche più rilevanti: il suo rapporto complesso con il reale, contiguo eppure separato da quella specifica forma di rappresentazione che ogni film costruisce. Se ci  è vero, parlare di cornice, significa, ancora una volta, parlare di “realismo”, persino nelle sue declinazioni più recenti e sofisticate, che ci si riferisca a lavori di “finzione” o di stampo “documentaristico”. Il fuori campo che l’esistenza di una cornice indica è, in ogni caso, lo spazio della vita che continua, oltre i limiti di ci  che ci è dato vedere, come accade, in maniera esemplare, in tutti i film di Jean-Pierre e Luc Dardenne, come in quelli di Abbas Kiarostami. Le nuove frontiere del documentario contemporaneo ritematizzano, in forma originale, la natura del confine di cui stiamo parlando, attraverso forme ibride della rappresentazione: l’ultimo film di Stefano Savona, La strada dei Samouni (2018) incornicia, per esempio, ampie sequenze d’animazione, dentro il codice documentaristico a cui pure il film è riconducibile. La cornice segna qui, come altrove, il passaggio e l’incrocio fra regimi differenti della rappresentazione cinematografica.

Schermi, supporti, formati. Insieme all’inquadratura, fungono da cornici i supporti grazie ai quali pu  aver luogo la visione. Affrontare la questione della cornice significa dunque tenere in considerazione l’evoluzione dello schermo cinematografico e dei suoi formati (dal 4:3 al cinemascope), fino all’apparizione di nuovi schermi luminosi (dal televisore, al computer al tablet e allo smartphone) ai quali oggi è consegnata, in molti casi, la fruizione filmica. Anche in questa sua declinazione tecnico/tecnologica, la questione della cornice pone importanti domande teoriche, come dimostra il fiorire di interi filoni di studio, dedicati a questo argomento. Riflettere sulla cornice significa, per esempio, mettere a fuoco la centralità del supporto della visione e la sua capacità di modificare, in maniera essenziale, l’esperienza spettatoriale. Il cinema stesso riflette da tempo su questa specifica accezione della cornice, intesa qui come schermo: da Minority Report  (Spielberg, 2002) a Artaud doppio spettacolo, il cortometraggio di Atom Egoyan contenuto nel film collettivo Chacun son cinéma (2007), l’apparizione di nuovi schermi è l’occasione per il cinema di immaginare nuove strategie narrative e di fruizione.