N. 35: “Infanzia”

Il concetto di infanzia appartiene al pensiero moderno. È dal Settecento infatti che un particolare stato dell’esistenza inizia ad essere riconosciuto come autonomo, dotato di peculiarità che da una parte lo distinguono dall’età adulta, dall’altra ne costituiscono la fondazione, l’origine. Se nel XVIII e XIX secolo si sviluppa un mito della fanciullezza, caratterizzato dalla ricerca di un’età “pura” e “innocente” dell’uomo, se il mito del Puer eternusinizia a diffondersi nuovamente a partire dal XX secolo, grazie anche agli studi di Jung, questo significa che l’infanzia cessa di essere una pura definizione anagrafica, una delimitazione di un momento della storia individuale, per diventare gradualmente qualcosa di più complesso, l’immagine appunto di uno stato dell’essere che non solo marca la vita di un individuo, ma la accompagna.
Ma è nel Novecento che il concetto di infanzia si scinde: da una parte essa si scopre valore etico e parte integrante della cultura e della società (la nascita di discipline scientifiche dedicate al mondo dell’infanzia, l’attenzione legislativa ai diritti dell’infanzia, ecc.); dall’altra l’infanzia diventa un’immagine o meglio, un modo di guardare che attraversa il secolo come forma della nostalgia. Tornare ad uno sguardo puro, riconoscere l’infanzia dell’arte, delle forme, delle idee diventano valori che accompagnano la ricerca incessante di artisti e pensatori. Infanzia come purezza, origine, libertà, ingenuità, esperienza totale, fragilità e speranza: nel Novecento la parola diventa un contenitore di molteplici significati che si riflettono nella storia delle forme, e del cinema in particolare: «Se il cinema è l’infanzia (infanzia dell’arte, emozione dell’inizio, ecc.), che ne è stato di quella nostra idea di “cinema adulto”?» si chiedeva molti anni fa Serge Daney. L’equivalenza, o la vicinanza di cinema e infanzia è stata spesso declinata in modi diversi: come modo per denigrare il cinema – divertimento “infantile” – o, all’inverso, come modo per esaltarne la potenza – il cinema capace di riattivare l’emozione pura della propria infanzia. Ma le forme del rapporto possono mutare, articolarsi anche in modi differenti, costruire cioè nuove modalità attraverso cui il cinema ha attraversato il concetto e l’immagine dell’infanzia.

L’attrazione. L’infanzia del cinema. Buona parte della storiografia del cinema contemporanea ha portato avanti l’idea di una doppia nascita del cinema: una prima fase in cui è l’immagine in movimento a catturare l’attenzione e la meraviglia dei primi spettatori, ad attrarre proprio in quanto movimento del mondo che si raddoppia sullo schermo. A questa prima fase ne segue una seconda, in cui il cinema diventa narrativo, accoglie su di sé l’eredita di altre forme espressive e inizia a raccontare storie attraverso la sua specifica modalità. Ma una tale doppia nascita, una tale duplice fase può essere letta non solo dal punto di vista filologico o storico, ma anche, e soprattutto come sopravvivenza delle immagini. Cosa resta, cosa ancora di quel cinema delle attrazioni rimane nel cinema contemporaneo? In un cinema cioè che, ad esempio in autori come Zemeckis e Cameron, non cessa di ricercare la meraviglia nello sguardo dello spettatore, appunto quello sguardo incantato, quell’emozione dell’inizio di cui parlava Daney? Si tratta allora di indagare le forme della meraviglia che ancora attraversano l’immagine cinematografica contemporanea, che la ricollegano vorticosamente alla sua origine.

Lo sguardo ad altezza di bambino. Ci sono autori che non rinunciano a ricercare, nel proprio cinema uno sguardo capace di riconnetterli alla propria infanzia, intesa come stato della libertà, della scoperta e della meraviglia. Nel cinema di Spielberg (da E.T. L’extraterrestrea GGG, passando per A.I.), il bambino non è tanto il protagonista di una narrazione, quanto il portatore dello sguardo attraverso cui il mondo si rivela nella sua complessa magia; nel cinema di De Sica (da I bambini di guardanoa Sciuscià) il bambino diventa l’istanza etica attraverso la quale il mondo può essere visto e affrontato; ma la meraviglia si accompagna spesso alla paura, al timore del mondo, dell’abbandono e della solitudine. Nei film di registi come Tim Burton o Guillermo del Toro, lo sguardo-bambino è uno sguardo che fa i conti con l’orrore del mondo, ma ogni volta lo accetta, lo vive come parte integrante dell’esistenza o reagisce ad esso con uno sguardo che costituisce una alternativa al mondo degli adulti. Lo sguardo ad altezza di bambino è spesso anche lo sguardo perduto, ricercato, anelato: nel cinema di Wenders spesso incontriamo personaggi che ricercano la propria infanzia perduta; in quello di Kiarostami, personaggi-bambini che vivono il quotidiano con lo sguardo degli adulti. L’infanzia diventa allora in questo cinema la possibilità di uno sguardo diverso, che costantemente ricerca un nuovo incantamento del mondo, in cui si è ancora capaci di vedere il fiabesco, il meraviglioso, l’aperto.

L’infanzia nel cinema. La storia dell’infanzia nel cinema è una storia lunga e complessa. Spesso il “nuovo” cinema (dal Neorealismo alle varie Nouvelle Vague del cinema moderno) hanno visto nelle figure dei personaggi-bambini i portatori di un nuovo sguardo, di una libertà di movimento, di innocenza e al tempo stesso di una fragilità che in un certo senso rappresentavano il desiderio di apertura e di rinnovamento delle forme del nuovo cinema moderno. Se, come affermava Deleuze, il bambino rappresenta anche la sproporzione tra il soggetto e il mondo nel nuovo cinema moderno (basti pensare ai bambini tragici di Rossellini), esso diventa spesso anche l’apertura verso il futuro, l’immagine concreta e mobile di un nuovo patto con il mondo. Nel cinema contemporaneo la figura del bambino ritorna spesso, soprattutto come punto di equilibrio tra le nuove dinamiche sociali e culturali e la spinta verso una nuova forma di esistenza. Nella produzione della Pixar o della Disney il bambino diventa sovente il punto nevralgico di un mondo in crisi che riesce ad affrontare solo grazie alla contrapposizione tra la fantasia e le pratiche alienate della vita contemporanea. Così la sproporzione, l’eccesso del mondo che travolge lo sguardo del bambino si trasforma spesso in una sfida, nella ricerca di un nuovo modo di vedere.