
Paura, terrore, orrore, angoscia. Intorno a questo insieme di parole diverse ma tra loro legate si è sviluppato nel tempo un pensiero costante, complesso, che dalla filosofia alla psicoanalisi ha declinato le forme di una emozione radicale quanto necessaria. Da Epicuro a Freud e ad Heidegger, passando per Kierkegaard, il concetto di paura è stato affrontato più volte, e sempre di più con la consapevolezza della sua necessità. La paura è infatti necessaria, per la sopravvivenza stessa. Di più, la paura è una forma di attenzione, di scoperta del mondo. Bisogna dunque avere il coraggio di aver paura come barriera rispetto all’avventatezza di chi la dimentica: è il monito aristotelico contenuto nell’Etica che sempre di più ritorna nella situazione contemporanea. Ma se la paura è anche il sentimento che identifica il nostro limite rispetto all’estraneità e all’eccedenza del mondo, bisogna aver anche il coraggio di superarla, per non trasformarlo nel sentimento esclusivo, sintetizzabile dalla frase di Marc Augé: «Non sarà che, oggi, la paura della vita abbia rimpiazzato la paura della morte? ». Nello scenario contemporaneo, le immagini ci restituiscono però un mondo attraversato da nuove forme di paura, una paura radicale, non più di questo o quell’oggetto, di questa o quella situazione, ma una paura radicale, totale, che si insinua nei meandri del nostro sentire, facendo tremare le radici stesse del nostro essere al mondo. È ciò che Hegel, nella Fenomenologia dello Spirito, chiamava “paura assoluta”, paura della negazione pura, del puro dileguare, dell’assoluto dileguarsi di tutte le determinazioni (distinta dal carattere indeterminato dell’angoscia).
Paura e desiderio (il cinema). L’immagine cinematografica è fin dalla sua nascita legata al doppio piacere della paura e del desiderio. A partire dalla leggendaria fuga degli spettatori all’arrivo della locomotiva Lumière, fino alla vertigine delle proiezioni a 360° in realtà virtuale, è il dispositivo stesso ad aver sempre alimentato dinamiche di paura intese come spettacolo catartico, come macchina collettiva – la sala cinematografica e i suoi effetti visivi e sonori – come strumento solitario, isolante – dal Nickelodeon di Edison ai visori individuali per gli spettacoli a 360 gradi. È la visione stessa a suscitare al tempo stesso paura e fascinazione, perché in fondo la paura della nuova caverna è in realtà anche il suo piacere, come lo era negli spettacoli “mostruosi” dell’Ottocento, nel Grand Guignol e in ogni macchina spettacolare capace di rendere visibile gli oggetti della paura. È in questo senso che può essere riletta l’immagine di Alain Badiou della caverna platonica come Grande Cinema Cosmico, o i freak show di Browning e di Lynch, così come ogni visione solitaria che diventa generatrice di sogni, paure e desideri, che il cinema non ha smesso di raccontare e, in un certo senso, di rappresentare.
Il segno e la visibilità: le forme horror. Non solo la paura, ma le angosce, il terrore e l’orrore del mondo sono le dinamiche che attraversano le nuove, e vecchie forme del cinema horror (anche all’italiana, Bava, Fulci, che hanno segnato autori come Sam Raimi e Tarantino). L’horror viene sempre più identificato come genere ibrido, o come genere che ibrida gli altri generi, mostrando la dimensione paurosa di ogni elemento dell’esistere. Il nuovo horror si configura infatti come qualcosa di più di un genere cinematografico e diventa uno degli spazi più sperimentali dell’immagine contemporanea. Quello appunto dove prendono forma le paure dell’esistenza, le paure della vita: dalla dimensione horror del capitalismo contemporaneo in Drag me to Hell (2009) di Sam Raimi, alla paura del contagio e della contaminazione dei corpi in Contagion (2011) di Steven Soderbergh, fino alla paura dello sguardo stalking, della perdita della privacy in It Follows (2014) di David Robert Mitchell. Ma la dimensione ibrida dell’horror attraversa molte forme della narrazione cinematografica e seriale contemporanea, sempre più capace di mediare simbolicamente le paure contemporanee. È allora forse il cinema stesso ad essersi trasformato sempre più in cinema dell’orrore contemporaneo, a riflettere e mettere in scena in vari modi, la vita sotto forma di paura.
La paura e l’assedio (l’invisibile). Negli ultimi anni le forme della paura mettono sempre di più in gioco l’immateriale e l’invisibile, l’informe come ciò che suscita terrore. Le forme della paura contemporanea sono infatti legate all’impossibilità di individuare un oggetto concreto in grado di suscitare paura, e che quindi possa essere riconosciuto ed affrontato. Una nuova forma di “paura assoluta” forse, la paura di un conflitto invisibile e allo stesso tempo diffuso, che rende insicuro e a rischio ogni gesto quotidiano come quello scatenato dal terrorismo contemporaneo, produce spesso l’immagine dell’assedio, che dal film omonimo di Bertolucci alla moltiplicazione della figura dello zombie, negli ultimi anni prolifera in modo esponenziale. L’assedio come una delle figure, delle immagini dell’esistenza. Il cinema lavora infatti da tempo sulla necessità di dare un’immagine allo spazio vuoto che il nemico occupa nello scenario attuale. L’immagine documentaria o l’immagine di finzione costruiscono, ognuna a suo modo, narrazioni della contemporaneità, nuove immagini del nemico forse, ma sempre più spesso, immagini della paura del nemico, della paura della sua irriconoscibilità (Also Known as Jihadi, 2017, di Eric Baudelaire, La chambre vide, 2016, di Jasna Krajinovic). È in questo senso che il cinema lavora su corpi e storie rintracciabili – come i Foreign Fighters che da varie parti d’Europa raggiungono la Siria e altri luoghi di addestramento per diventare combattenti dell’Isis. Ed è in questo senso che è a partire dal cinema che ci si interroga sull’uso dell’immagine da parte del terrorismo contemporaneo (Daesch, le cinèma et la mort di Jean-Louis Comolli) o su come i media producano incessantemente immagini nel tentativo di creare una narrazione sostenibile della paura del terrorismo (Marie-José Mondzain).