
Quello di “popolo” è un concetto che nel corso dei secoli ha visto sviluppare ulteriormente i propri significati e dunque ha visto moltiplicare le proprie immagini, molte delle quali sono state riprese e trasformate dal cinema contemporaneo in modo peculiare. Il termine popolo, infatti, è stato visto nella cultura occidentale sia come concetto giuridico, storico o religioso (il populus romanus, il popolo italiano prima dell’unificazione o il popolo dei fedeli), sia come termine per indicare quella parte della società perlopiù esclusa dalla gestione del potere e dalla ricchezza (il popolo contrapposto alle élites). Questa doppia accezione (il popolo come entità unica e il popolo come parte esclusa) ha attraversato la storia del pensiero e si è incarnata in forme via via diverse, in ipotesi politiche differenti.Proprio l’alternanza tra il tutto e la parte ha permesso nel corso del tempo di costruire un orizzonte simbolico complesso, in cui il concetto di popolo si contrappone via via a quello di moltitudine (in Hobbes), di classe (in Marx), o di folla, gente, massa in molti pensatori e studiosi (Kracauer, Benjamin).
È il cinema – arte collettiva e di massa, arte popolare per eccellenza – a rilanciare con forza nel Novecento la feconda ambiguità del termine popolo. Feconda perché forse come non mai prima, è proprio a partire dal XX secolo che l’urgenza dell’individuazione di un popolo, della sua creazione e costruzione come soggetto politico si mostra con tutta la sua forza. “Il popolo manca”, affermava Paul Klee, proprio perché ogni arte fa appello ad un popolo che non c’è ancora, ricorda Gilles Deleuze; dunque l’arte è capacità di immaginare un popolo, una collettività. Anche per questo l’arte, afferma Hannah Arendt in Vita activa, o André Malraux è resistenza, aspirazione alla ricerca di nuovi soggetti, di nuove coscienze. Il cinema è un’arte popolare e dunque un’arte paradossale ricorda Badiou; ha dunque declinato in molti modi il popolo come assenza, aspirazione, soggetto da creare, massa da riconoscere, folla indistinta, modello utopico, e al tempo stesso, essenza concreta, materiale, forza viva, pulsante (“Il popolo manca, e allo stesso tempo non manca affatto” afferma Deleuze in Che cos’è l’atto di creazione). Quali immagini hanno quindi interrogato il concetto, la forma e l’idea di popolo nel cinema del XX e XXI secolo?
Popolo-folla. La nascita del cinema e soprattutto la nascita del campo lungo è l’occasione per il cinema per mostrare la massa più che il popolo, il movimento indistinto e spesso anonimo di masse in movimento: il movimento uniforme degli operai di Metropolis o degli adoratori di Moloch in Cabiria; delle masse di Babilonia in Intolerance, o della folla che esce dal lavoro in l’uscita dalla fabbrica dei Lumière. Il cinema mostra che il popolo si costituisce a partire dai gesti che compie, gesti che lo identificano. Gli operai che escono dalla fabbrica dei Lumière è il primo film della storia del cinema, e marca, come ricorda Harun Farocki (in Workers Leaving the Factory), il legame della storia del movimento di massa con la storia del cinema stesso. Il gesto che identifica quegli uomini e donne è l’uscita dalla fabbrica, il lavoro e il fuori dal lavoro. Così come nelle folle che si precipitano in strada alla fine del turno in La folla di King Vidor, o che si ritrovano all’interno di una sala cinematografica.
Popolo-classe. Ma quegli operai non sono ancora una classe. Perché ci sia classe è necessaria una presa di coscienza. È grande esempio del cinema di Ejzenštejn, delle immagini delle masse sovietiche in Sciopero, che prendono coscienza di sé costruendo nuovi percorsi e nuove forme di vivere il lavoro attraverso l’occupazione della fabbrica. A partire da Ejzenštejn possiamo ritrovare una linea a e un problema della costituzione di una classe anche nel cinema successivo, a partire dagli anni Trenta del Fronte popolare (Renoir, La marsigliese) fino agli anni Quaranta di Visconti e De Santis (La terra trema, Non c’è pace tra gli ulivi). Per arrivare all’idea di popolo-comunità (integrazione di eterogenei) come nel Ford di La carovana dei mormoni.
Popolo-nazione. Il cinema racconta la genesi, è genealogia nel momento in cui si interroga sul gesto originario, sulla nascita di un popolo inteso come forma politica e spirituale. Le “nascite di una nazione” che attraversano la storia del cinema sono il racconto della genesi del popolo inteso hegelianamente come lo spirito della nazione. Uno spirito che spesso si incarna in agenti della Storia, come in Griffith appunto, o come in tutti quei racconti in cui il popolo diventa emanazione della volontà della Storia (il Napoleone di Abel Gance che infrange infatti i limiti dello schermo e l’Ivan il Terribile di Ejzenštejn il cui volto si inchina, enorme di fronte alla serpentina del suo popolo venuto ad acclamarlo). E dunque si può incarnare in un Singolo, in un eroe. È la grande forma epica dell’immagine-azione, così come la grande forma del cinema totalitario, in cui il popolo è solo forma dell’architettura dell’immagine, è tutt’uno con le architetture di Albert Speer in Il trionfo della volontà di Leni Riefensthal o con le grandi scene di massa dei film di Ciaureli o di Carmine Gallone, in cui l’agente della Storia è diventato il dittatore o il condottiero. Il cinema riflette allora sulla nascita delle immagini del popolo, inteso come forza e come pura illusione, come entità senza volontà propria o come soggetto identitario della storia. Dal cinema americano a quello francese, passando per la storia frammentata del cinema italiano, il popolo-nazione non cessa di essere interrogato come immagine.
Immagini di una scomparsa. Ma la genesi di un popolo, come entità politica e spirituale è anche la nascita di un’immagine, o a volte di un’illusione. Cosa resta quando si perde questa illusione, questa identità di popolo? O si precipita in una comunità che si è fatta giungla, dove tutti tradiscono tutti (è quello che ha raccontato il gangster movie), oppure possono emergere comunità di incontro tra eterogeni, è la grande storia della modernità cinematografica, a partire da Rossellini. Il popolo qui è da inventare perché ciò che lo tiene insieme non è il sapere né l’ideologia ma la credenza (da Godard a Rivette, da Straub a Martone, dal terzomondismo di Pasolini a Rocha). Nel cinema contemporaneo questa idea di eterogeneità tende a divenire forma della moltitudine. Troviamo qui il racconto di un popolo che viene da fuori (gli extracomunitari di Amelio e Rosi), che smarrisce la sua identità, o la mette in discussione. È la prima forma del cinema apolide, di Yilmaz Güney ad esempio, o del cineasta palestinese Elia Suleiman, o di Amos Gitai. Registi che costruiscono le immagini di una scomparsa, di un affievolirsi dell’idea stessa di popolo. È il cinema di Pedro Costa e di Miguel Gomes in Portogallo, o di Joshua Oppenheimer e Rithy Panh in Cambogia. Un cinema in cui i volti e i corpi appaiono sempre come fantasmi, maschere, ironiche parodie, sostituti immaginari di popoli che hanno subito il trauma della dispersione, dell’eccidio, dell’esilio, del massacro. L’immagine della scomparsa si fa dunque immagine della contemporaneità, immagine di un popolo inteso come enigma, come soggetto mancante.