
Il concetto di “storia” si misura in primo luogo con quello che fin da Aristotele e dalla tradizione classica era immaginato come il vincolo fondamentale tra l’insieme di ciò che accade e la narrazione che se ne fa. Ciò che chiamiamo “storia” riguarderebbe il racconto di quanto è “realmente” accaduto. Anche se, e ce lo dicono alcuni esempi del cinema italiano più recente (Esterno notte di Marco Bellocchio, Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti), in arte e al cinema si potrebbe fare la storia anche con i “se”.
Tracciamo di seguito quattro possibili linee di ricerca attorno a questo tema.
Storia come archeologia. Se il linguaggio artistico può scegliere di indagare la storia secondo la sua linearità cronologica, può inversamente optare per decostruire il suo andamento orizzontale affrontando quest’ultima a partire dalle sue più profonde stratificazioni. Affondare archeologicamente nella storia vuol dire compiere parallelamente un lavoro di scavo nel tempo non più vincolato ad un movimento “in avanti” bensì libero di aprirsi a gesti di sovrapposizioni, dilatazioni, condensazioni che operano sulle epoche storiche in senso anacronistico. Sono le arti in genere e non solo il cinema a realizzare ciò che Walter Benjamin chiamava «immagine dialettica», Aby Warburg «Nachleben», Hans-Georg Gadamer «fusione di orizzonti» (per citare tre delle teorizzazioni fondamentali in proposito). In tutte queste riflessioni il passato si dimostra capace di dialogare con il presente incrociando sensibilità diverse eppure in grado di risuonare in un’unica integrazione di senso. Non solo l’Atlante di Warburg, naturalmente, ma tutte le grandi operazioni che nel Modernismo hanno costruito attraverso il “montaggio” sintesi anacroniche di elementi della tradizione occidentale e della sua storia (The Waste Land di Eliot, Ulysses di Joyce).
Storia e storie. La Storia con la maiuscola si presta costantemente, nella pratica artistica, ad intersecarsi con le storie con la “s” minuscola (come è ben visibile ne Il sol dell’avvenire di Moretti).
Se esiste un approccio storico tradizionale per lo studio della dimensione ufficiale di quest’ultima, raccolta da una memoria collettiva che scrive attraverso una documentalità riconosciuta il proprio passato, una via alternativa percorre le testimonianze dei cosiddetti “anonimi” (su cui Foucault e Rancière ci hanno detto), che contribuiscono alla narrazione a partire da prospettive marginali – una «letteratura minore» (Deleuze e Guattari) – che tuttavia, pur parlando da una “micro- dimensione”, riescono ad occupare punti di vista originali e spesso illuminanti.
Nel cinema questo accade tanto più dagli anni ottanta/novanta in poi, quando il riuso delle immagini d’archivio – istituzionali ma anche private – entra a far parte in modo progressivamente massiccio nei montaggi documentaristici. È spesso proprio a partire dal «collage» (Wees) con gli “home movies” che, anche in epoche ben più recenti, le “storie minori” si fanno strada all’interno dei racconti ufficiali. Sono tanti i cineasti che possiamo nominare: da Forgács a Perlov, passando per Mekas, Akerman, Sokurov, Loznitsa, Herzog e arrivando ad una produzione nostrana sotto questo orizzonte sempre più feconda (Marazzi, Bellocchio, Marcello, Nicchiarelli).
Storia e finzione. “Raccontami una storia”. È evidente come questo termine si apra semanticamente ad accezioni che si discostano dal significato di storia come “testimonianza documentale” presentandosi al contrario come manipolazione di un «tempo del racconto» inventato (Ricoeur). Storia diventa allora in questo caso essenzialmente sinonimo di narrazione e dunque di una creatività messa al servizio della rielaborazione di un tempo reale in termini finzionali – dalle sue manifestazioni più essenziali (l’unità di spazio-tempo aristotelica) a quelle più complesse (il romanzo otto-novecentesco). Sono in questo senso teatro e letteratura ad aver fatto da “apri-pista”, seguiti da un cinema che, se da una parte innesta in una forma plastica autonoma un tempo “romanzesco” svincolato dalla pura azione (Bazin), dall’altra attinge dalla letteratura storie di finzione traducendole in grandi adattamenti audiovisivi (da Coppola a Spielberg, da Visconti a Pasolini, arrivando a cineasti contemporanei come Marcello o Costanzo).
È interessante come spesso anche il racconto “del reale” si serva in questo senso di elementi appartenenti alla favola, al mito, alla fantascienza, al realismo magico, facendo sì che la Storia (persino gli elementi di essi più cronachistici) diventi il risultato di una elaborazione immaginativa. In questi casi è precisamente una certa operazione di “falsificazione” a produrre un incremento di realtà – «realismo estetico», l’avrebbe definito Bazin – capace di autenticare una verità storica.
Le cesure della Storia. Le arti hanno vissuto le più grandi trasformazioni quasi sempre in concomitanza con le grandi cesure della Storia. Se prendiamo in considerazione il cinema, basti pensare al Neorealismo in Italia, o al cinema apocalittico post-11 settembre, o ancora, oggi, al cinema post-pandemico.
Il legame di un’opera o, in termini più ampi, di un genere con un preciso tempo storico riconnette questi necessariamente ad uno specifico contesto ambientale. Ecco che allora le grandi catastrofi mondiali hanno portato le arti e i linguaggi artistici (figurativi, teatrali, letterari, cinematografici) a cambiare. Radicate in uno spazio (urbano o non urbano) condizionato dalle svolte della storia, le arti hanno assorbito e rielaborato tale contesto – il paesaggio fatto di macerie, materiali e morali, della guerra e del dopoguerra (Otto Dix e la Prima guerra mondiale, Guernica di Picasso, per citare solo due esempi pittorici), gli scenari distopici post-virus ecc. Il rapporto tra cesure della Storia e trasformazioni dei linguaggi artistici e della forma delle immagini è ad esempio al centro di un’opera capitale come le Histoire(s) du cinéma di Jean-Luc Godard.