N.51: “PRASSI”

Quello di “prassi” è forse uno dei lemmi maggiormente polisemici della tradizione culturale occidentale. Ad esso, infatti, ne corrispondono diversi altri dal significato affine o contiguo: pratica, abitudine, uso, consuetudine, rito, ma anche esercizio, esperienza, azione, opera. Ognuna di queste possibilità ha dato luogo a interpretazioni spesso divergenti della prassi, a partire dalla distinzione aristotelica, nella quale è scritto che «è giusto anche denominare la filosofia scienza della verità, perché il fine della scienza teoretica è la verità, mentre il fine della pratica è l’azione» (Aristotele).

Se in Aristotele abbiamo dunque una distinzione, è forse a partire da Marx ed Engels che è possibile rintracciare un tentativo di riannodare il polo della teoria con quello della prassi, ponendo il problema, nella seconda delle loro Tesi su Feuerbach, della sottrazione della teoria a un campo speculativo puro, quando si è reso necessario un più “impuro” mescolamento con il luogo della praxis. Tuttavia, non è solamente nella filosofia che la prassi ha rivestito un ruolo di rilievo, in quanto essa, oltre ad essere legata a un certo modo di intendere l’attività, lo è anche a un principio di formatività più generale che istituisce comportamenti, abitudini e azioni degli individui e delle collettività. Essa diviene, in questa maniera, un modo per sperimentare l’accadere di vere e proprie forme di vita.

Il XX secolo, in particolare, potrebbe essere definito il secolo in cui il problema della prassi ha affondato maggiormente le proprie radici.

Per fare un esempio, durante tutto l’arco del Novecento abbiamo visto l’imporsi di due generi di esperienza affatto diverse che, in maniera spesso intrecciata, hanno portato su di sé il sigillo di un simile genere di attività formativa: l’esperienza rivoluzionaria e quella cinematografica. Se da un lato le rivoluzioni, come ad esempio quella bolscevica e quella maoista, per citarne solo due che sembrano aver avuto le conseguenze più rilevanti per il mondo contemporaneo, sono state laboratori di una profonda elaborazione riflessiva della prassi, dall’altra parte il cinema, soprattutto quello hollywoodiano, sin dai suoi esordi, non avrebbe potuto conquistare la rilevanza che oggi detiene senza portare nelle immagini in movimento un’idea dell’azione, nel suo legame con le forme della consuetudine. Vediamo allora come, nonostante l’apparente opposizione iniziale, teoria e prassi possano essere profondamente interrelate: così come la prima non si dà senza gli incontri con l’esperienza della seconda, la seconda non si è mai data senza implicare un momento di elaborazione riflessiva della prima.

Se è vero che teoria e prassi sono due lati di uno stesso foglio, sarà l’uso delle reciproche composizioni a determinarne i contorni e i ritagli. Ogni disciplina ha, infatti, una propria pragmatica, degli esercizi che compie per istituire o scompaginare gli abiti che danno consistenza a una forma di vita determinata. In questo modo, il tema della prassi può essere indagato a partire da vari punti d’ingresso, che siano essi concettuali, che riguardino le immagini in movimento, il linguaggio, i nuovi media, le pratiche rivoluzionarie o quelle artistiche, così come la letteratura, in quel proliferare polisemico che mostra tutta la sua complessità nel restituire una simile questione a un’unica tradizione definita o a un ambito disciplinare compatto.

A partire da questo quadro teorico si possono individuare alcune direzioni verso cui orientare la riflessione sul tema.

Il cinema della prassi e la prassi del cinema. C’è almeno una doppia maniera di intendere il rapporto tra cinema e prassi. Da un lato abbiamo un cinema che si dà il compito di veicolare contenuti politici, di rappresentare la prassi, facendone il tema della diegesi filmica. Dall’altro abbiamo un cinema che si fa prassi «nel riplasmare i sentimenti che abitano le nostre “esperienze primarie”» (De Gaetano), come in un esercizio trasformativo delle nostre forme di vita.

Tuttavia, né l’una né l’altra strada sono state percorse in maniera solitaria e si è dato spesso luogo nella storia del cinema a un intreccio tra le due dimensioni – si può davvero sostenere che film come La classe operaia va in paradiso (Petri, 1972) abbiano solamente un contenuto politico, senza che a questo s’accompagni anche una praxis propria del medium cinematografico? Sia come sia, esplorare il rapporto tra prassi e cinema significa, primariamente, confrontarsi con le forme che quest’ultimo ha assunto nel tempo e nello spazio, così come con i suoi generi e con le sue trasformazioni. Se è vero, per fare un esempio, che si potrebbe citare il cinema statunitense come guidato da un’idea di messa in forma dell’azione (le immagini-azione di Deleuze), bisognerebbe altresì esplorare i vari modi in cui queste forme hanno preso corpo, trasformando e riplasmando in vari modi, nel corso del tempo, le consuetudini ad esse soggiacenti. La commedia, da questo punto di vista, è un genere di grande rilievo in quanto, forse più di altri, accompagna, descrive, e in certi termini dispone verso le mutazioni degli abiti e delle forme di vita, come nel caso dell’abitare, attraverso i personaggi e le costruzioni spaziali, lo scarto tra vita rurale e vita metropolitana, tra stasi e movimento (il “mondo verde” di cui parla Cavell per la stagione delle grandi commedie americane del rimatrimonio).

Se dunque, come ha sostenuto tra gli altri Dewey, l’esperienza pratica fonda e rende possibile l’elaborazione concettuale, così come la formulazione e la trasformazione delle nostre credenze, il cinema si propone come luogo centrale di una simile operazione. Oltre alla commedia, è in generale tutto il cinema di genere che riflette e plasma le forme della prassi. Perché un genere si costituisce sull’analogia tra singole opere, che condividono modi simili di raccontare il mondo e ciò che vi accade. La macro distinzione tra forme generiche riguarda – per il Deleuze de L’immagine-movimento – in primis due forme di prassi e il loro diverso rapporto con la situazione. La distinzione tra “grande” e “piccola” forma dell’azione risulta talmente importante da essere sovraordinata alla distinzione meramente retorica tra generi. Ci possono essere più analogie tra due film di “grande” forma dell’azione appartenenti a due generi retoricamente diversi, che tra un film di “grande” e uno di “piccola” forma di uno stesso genere: Johnny Guitar (1954) di Nicholas Ray è più vicino a un melodramma (centralità della figura femminile) che a un altro western coevo come La carovana dei mormoni (1950) di John Ford (centralità della comunità).

Inoperosità e gesto. Nella tradizione occidentale il termine prassi è stato soggetto a un doppio processo: da Aristotele fino ad Hannah Arendt, esso è stata posto, nel suo significato di “azione”, a fondamento della politica, circondato da un lato (soprattutto nella modernità) dal modello produttivo del lavoro, dall’altro dall’opera nella sua capacità di trascendere il tempo con la produzione di oggetti che “durino”. Ripensare la categoria di prassi può dunque configurarsi come una decostruzione complessiva della “sfera attiva” dell’uomo.

Disattivando la relazione mezzi-fini che caratterizza tanto l’azione che l’essere-in-opera diviene visibile «una forma dell’attività umana non riducibile né alla produzione né alla prassi né al lavoro» (Agamben). Un genere di prassi che potremmo chiamare “inoperosa”, distinguendola tanto dall’inazione che dalla rinuncia ad ogni opera, e che si configura, piuttosto, come il vuoto interno ad ogni operazione, che ne sospende le determinazioni, riconsegnandone la potenza ad un nuovo possibile uso.

L’inoperosità potrebbe, inoltre, essere tradotta in una teoria ed in una pratica del gesto, «prassi pura» che assume e compie, ma non agisce né produce. Ciò appare sin dall’articolazione del binomio azione-felicità per quanto riguarda le grandi forme classiche della tragedia e della commedia (Aristotele), e assume un nuovo statuto nel cinema che, fin dalla slapstick nel muto, fin dal gesto contrapposto all’azione, dall’attrazione comica contrapposta alla narrazione, dalla “pie” contrapposta alla “chase” (Crafton), lascia emergere la frattura tra la sospensione del gesto e l’effettività dell’azione. Sospensioni che vediamo anche nei gesti mimici che sono le espressioni dei volti, che per esempio patiscono senza poter reagire (La passione di Giovanna d’Arco di Dreyer). O che vediamo anche nei gesti e nella prassi rituale, in cui il quotidiano si fa “cerimonia”, come in molto cinema etnografico (Jean Rouch).

Ma anche nelle immagini “statiche”, pittura e fotografia, vediamo tutto questo. Nei gesti pittorici, quotidiani (pensiamo al versare il latte, al cucire, in Vermeer) o eccezionali, come i grandi gesti retorici delle figure imperiali nell’arte romana (indici o braccia sollevate), o ai gesti carichi di senso ma misurati dell’arte cristiana, come le figure sacre con la mano sulla guancia, o leggermente protesa come la mano dell’Annunciata di Antonello, od ancora le braccia incrociate sul grembo ecc., tutti gesti che indicano un’azione già avvenuta o che deve avvenire. Nessuna azione in atto.

E come tutto questo riguardi pienamente anche l’immagine fotografica, sospesa tra istantanee del quotidiano e grandi gestus simbolici (Barthes), che condensano azioni possibili.

Pensare e agire di fronte alla catastrofe. Uno dei temi – se non il tema – della contemporaneità è certamente quello della catastrofe futura. Questa, nel suo presentarsi come inaggirabile e definitiva, sembra impedirci di pensare il futuro come lo spazio di un agire possibile. Se infatti il progetto moderno è stato caratterizzato dalla possibilità di immaginare il soggetto dell’azione proiettato in un futuro di là da costruire, spesso inteso nella sua autonomia e individualità, sembra oggi più centrale che mai ridefinire i termini di una tale soggettività agente, così come i modi in cui la immaginiamo. La prassi a venire, di fronte alla catastrofe, dovrà allora riarticolare l’individualità dell’agire, la sua forma di vita chiusa e autonoma, a partire dal cosmo che non solo la circonda, ma nel quale è essa stessa inclusa e dal quale è strutturalmente affetta (Benasayag, Cany). Un movimento di questo tipo, dall’individuo al cosmo o all’ecosistema, apre la via all’immaginazione, data l’insufficienza della sola elaborazione logico-razionale. Questo al fine di esplorare le possibilità più remote e radicali del possibile, mettendo euristicamente alla prova delle adesioni affettive altrimenti inattese. Una possibile esplorazione di questo tema è legata all’immaginario cyberpunk. Esso, immaginando l’esaurimento del progetto moderno, risolto in un gioco di sopraffazione neoliberale, di fronte alla catastrofe ecologica, economica, politica, e psichica, tenta al contempo di delineare le vie di fuga, altrimenti interrotte, da un simile futuro immaginato (Berardi). Proprio in direzione del cyberpunk, infatti, vanno diversi prodotti culturali mainstream degli ultimi anni, dal cinema alla serialità televisiva, dai videogames alla letteratura, basti pensare, per fare alcuni esempi, al successo intermediale – nonché transnazionale – di opere come Ghost in the Shell, Altered Carbon, Ready Player One, Cyberpunk 2077, Cyberpunk: Edgerunner, o la creazione di un sequel per un cult come Blade Runner: Blade Runner 2049. Tuttavia, se il cyberpunk è stato per decenni un movimento underground, destinato a una nicchia di appassionati o cyberattivisti, sembra oggi centrale immaginare le conseguenze, se ce ne sono, che una simile esplosione generalizzata impone a livello di costruzione di un immaginario e di una prassi alternativi.