
Quando la rete nacque, alla fine anni sessanta del secolo scorso, si presentava come una grande macchina beige, una specie di «schedario travestito da R2-D2» (Blum 2021), uno strumento per l’intelligence militare, che doveva ottimizzare la trasmissione di informazioni in caso di conflitti nucleari. Sappiamo cosa è successo: attraverso un imprevedibile processo di evoluzione e adattamento all’ambiente, la rete è diventata il dispositivo attraverso cui si sono ridefiniti gli spazi pubblici e privati, la velocità e i modi di trasmissione delle informazioni, le modalità di produzione e circolazione del sapere, trasformando radicalmente non soltanto l’ambito della comunicazione ma le forme stesse dell’esperienza. Dinanzi a questa innovazione tecnologica e alle sue conseguenze, molteplici sono stati gli sforzi, creativi e riflessivi, per pensare il nuovo mondo e progettarne le forme di vita.
Negli anni novanta del secolo scorso si imponeva il paradigma del virtuale, nel tentativo di definire lo statuto ontologico delle nuove modalità di interazione, problematizzando, così, quell’esperienza del doppio che si andava profilando con la rete e il digitale (Diodato, Heim, Levy); nel passaggio al nuovo millennio sono emerse altre parole d’ordine – come interattività, interfaccia e software (Chun, Galloway, Hookway, Manovich) – che hanno occupato la riflessione dei teorici dei media e dei filosofi, per dare risposta a quelle trasformazioni rapidissime che hanno portato prima alla nascita del web 2.0, poi alla pervasiva diffusione su scala globale dei social network. Oggi è il concetto di metaverso che impone tanto uno sforzo creativo quanto una riflessione critica interdisciplinare per orientare i futuri sviluppi di un mondo sempre più ibrido (Floridi).
Se è vero che le forme di vita tout court sono state ridefinite dalla diffusione su scala globale del web, è altrettanto vero che il cinema e i media costituiscono un terreno privilegiato attraverso cui leggere e interpretare questi cambiamenti. La rete rappresenta innanzitutto l’infrastruttura tecnica che ha rivoluzionato le prassi di fruizione e condivisione delle immagini: nella continua dinamica tra valore auratico e valore espositivo (Benjamin), la rete definisce una nuova accessibilità e manipolabilità delle immagini, una loro più immediata circolazione, riconfigurando il nostro rapporto quotidiano con esse. La rete non rappresenta solo un’infrastruttura tecnica, ma anche una grammatica e una logica per la costruzione di discorsività attraverso le immagini, il luogo in cui nuove forme espressive possono emergere, in un dialogo quanto mai necessario con la tradizione della settima arte.
A partire da questo quadro teorico si possono individuare alcune direzioni verso cui orientare la riflessione sul tema.
Rimediazione e rilocazione dell’esperienza cinematografica. A partire dal testo di Bolter e Grusin, diventato ormai un classico della teoria dei nuovi media, la riflessione teorica si è soffermata sul rapporto tra media tradizionali e nuove forme mediali, anche in una prospettiva archeologica (Parikka). La rete, attraverso lo sviluppo di specifiche interfacce, determina la rimediazione di forme e formati mediali precedenti. L’esempio forse più efficace è quello di Instagram, la tv aptica che si è imposta nelle abitudini online di milioni di persone. La rimediazione, dunque, continua ad operare come logica dominante della nuova medialità in rete, ma il web costituisce anche il luogo principale in cui l’esperienza cinematografica si riloca (Casetti). Il fenomeno della rilocazione rappresenta una sfida, non soltanto in termini teorici, per la necessità di definire cosa è il cinema o il post-cinema (Shaviro, Denson), ma anche in termini creativi e produttivi, rispetto alla riorganizzazione dell’intero sistema industriale. La recente crisi pandemica ha accelerato un processo in atto da tempo, in cui le piattaforme di streaming diventano operatori principali per la distribuzione e fruizione dei contenuti audiovisivi, destinando apparentemente l’esperienza della sala ad una rinnovata forma di auraticità.
Transmedialità: tra estetica e logica produttivo-ricettiva. Lo sconfinamento oltre i media tradizionali dell’esperienza audiovisiva ha portato all’emergere di una nuova estetica, di nuove regole per la costruzione e distribuzione del racconto cinematografico e audiovisivo. La rete rende possibile quel fenomeno che va sotto il nome di convergenza (Jenkins), in cui i media tendono a ibridarsi e a interagire l’un l’altro nella costruzione dell’esperienza di visione e fruizione delle immagini in movimento. La transmedialità, per , non è soltanto una strategia distributiva, che disloca il racconto su più formati e media (dal cinema ai videogame, dai fumetti alla rete, da Matrix al Marvel Cinematic Universe passando per Gomorra), ma diventa una logica formale per la creazione di mondi narrativi capaci di adattarsi ai diversi formati e registri mediali, di espandersi producendo molteplici per lo spettatore, in relazione al livello di coinvolgimento. Il carattere orizzontale della comunicazione in rete, infatti, permette allo spettatore di interagire in modo diretto con il racconto, contribuendo così alla costruzione di vere e proprie comunità online, che vanno dunque anche a ridefinire il concetto stesso di audience e di fandom. Nell’epoca convergente della transmedialità, intesa sia come strategia distributiva che come logica formale, lo spettatore può trasformarsi in produttore e partecipare così al racconto, ridefinendo i propri ruoli e compiti.
L’archivio, il montaggio, il détournement. Prima ancora di luogo per la distribuzione e fruizione di contenuti audiovisivi tramite i servizi streaming, la rete si è configurata come il più grande archivio di immagini, mai avuto a disposizione. Se è vero, come sostiene Foucault, che l’archivio è l’archè, ossia il principio che regola l’insorgere di enunciati e discorsi, la legge di ci che pu essere detto, allora l’inedita accessibilità di immagini, sequenze, pubbliche e private, amatoriali e ufficiali, e la loro intrinseca manipolabilità hanno ridefinito in modo radicale il nostro rapporto con le immagini e i discorsi che con esse si possono costruire. Dalla video arte, al cinema, passando per la creazione spontanea di contenuti da parte degli utenti, la rete è l’archivio di un immaginario globale condiviso (si pensi ad esempio alla produzione di Dominic Gagnon o a quella di Natalie Bookchin), la riserva di brandelli di Storia disponibili ad essere riorganizzati e rielaborati in una memoria culturale collettiva. Le Primavere arabe hanno rappresentato il momento in cui tale potenzialità si è manifestata più chiaramente, in cui si sono rimodulate le forme di testimonianza, attraverso processi di elaborazione e riutilizzazione di contenuti mediali a partire da un archivio che coincide con la struttura indicizzata e potenzialmente sconfinata della rete (Della Ratta). Su questo materiale si possono esercitare forme espressive diverse; anzi più radicalmente si pu sostenere che la materialità mediale di questi contenuti solleciti una precisa modalità di interazione con essi e quindi istituisce una specifica forma di espressione, in cui parola, immagine e suono vengono sincreticamente organizzati (Montani). Dai meme ai mash-up, dalle Instagram Stories ai video di TikTok, si instaura un circolo tra tecnica, operatività e ambito del simbolico, la cui virtuosità o viziosità è tutta ancora da scoprire.
Raccontare il futuro. Le trasformazioni tecnologiche e i rapidi cambiamenti che esse hanno prodotto hanno alimentato l’immaginazione cinematografica che in molte occasioni ha provato a raccontare il futuro tecnologicamente dispiegato, contribuendo a definire un immaginario che si costruisce sul confine tra realtà e finzione, tra utopia e distopia. Da Soderbergh a Fincher a Stone, da Halt and Catch Fire a Black Mirror, il formato filmico e quello seriale esplorano, da un lato, la storia delle origini, ripercorrendo i prodromi di una cultura mediale che sempre più oggi si va naturalizzando, e dall’altro gli scenari futuribili, aprendo uno spazio metariflessivo sull’ambiente mediale in cui viviamo e sul ruolo delle immagini in movimento.
Rete come metafora. La rete è anche metafora di pratiche, conoscenze, dispositivi, il cui sviluppo è avvenuto orizzontalmente e senza ancoraggio, contrapposto alla crescita radicata che ha trovato nella metafora arborea il suo generatore di senso. Gilles Deleuze e Félix Guattari hanno chiamato rizoma questa crescita per divisioni progressive ed erratiche, senza centro e senza radici, in grado di generare progressivi concatenamenti di connessioni molteplici, a seconda della quantità e della qualità degli incontri. Il rizoma è, in questo senso, “un’anti-genealogia” (Millepiani). Ma vi sono, oggi, anche ulteriori schemi interpretativi reticolari che, muovendo da metafore tratte da scienze biologiche come la micologia o la botanica, o da pratiche come l’antropologia, tentano di ristrutturare le dinamiche relazionali in continuità o in contrasto con quanto scritto da Deleuze e Guattari (si pensi, ad esempio, alla produzione di Coccia, Tsing, Ingold e Kohn). Si pu così mostrare come la metafora della rete, lungi dall’essere un’immagine conclusiva dell’agentività, anche e forse soprattutto inumana, si presti a ulteriori articolazioni in seno alla cultura contemporanea. Tematiche, queste, esplorate anche dal medium cinematografico. Basti pensare a film contemporanei come Titane di Docournau o ad Annientamento di Garland, così come a film ormai classici come Videodrome o Crash di Cronenberg, in cui la metafora della rete degli esseri interviene a complicare l’immagine di un soggetto isolato nella sua individualità, attraverso quella che potrebbe essere definita una nuova ontologia del sensibile.