
Sempre più frequentemente, in ambito contemporaneo, il termine paesaggio si definisce come il frutto di un’operazione di sintesi, di fusione tra uno spazio e il complesso sistema di percezioni attraverso cui il soggetto lo costruisce e lo riconosce come immagine. In più, lo spazio del paesaggio è già un territorio che ingloba e incorpora la presenza umana, sin dalla etimologia della parola (da “pays”, paese e “age”, globale, totale). Il paesaggio è sempre umano, sia perché è visto in relazione alla presenza dell’attività umana, sia perché può essere detto e riconosciuto come un tutto a partire dal fatto che c’è un soggetto in grado di unificare la molteplicità delle percezioni in una forma unitaria.
Il paesaggio, dal punto di vista pittorico o fotografico, è dunque una sintesi tra sguardo soggettivo e mondo esterno, o si pone come un montaggio o un flusso se visto da una prospettiva cinematografica. Un montaggio di elementi naturali e culturali, tra soggettività della visione e spazio che eccede i limiti del corpo. Parlare di paesaggio nel cinema significa infatti parlare di un modo di guardare, di costruire un’immagine, che sia una singola inquadratura o un intero film. È proprio questa caratteristica del paesaggio, che si colloca al tempo stesso internamente ed esternamente allo sguardo, a renderlo un elemento dinamico della rappresentazione cinematografica, mostrando di volta in volta la capacità del cinema di porsi come territorio in cui lo spazio e la sua rappresentazione diventano idee, sguardi, possibilità di pensiero.
Le modalità con cui questa complessa sintesi ha dato luogo ad immagini specifiche nel cinema sono ovviamente molteplici, legate a idee e pratiche differenti di cinema e di immagine. È proprio sul rapporto tra gli elementi della sintesi che hanno luogo le differenze che fanno del paesaggio di volta in volta un ambiente vicino o ostile, uno spazio interiore, un ricettacolo di forme e movimenti, uno spazio di radicale alterità o familiarità, solitudine o comunità. Sono tre in particolare le forme con cui il cinema ha pensato e praticato un lavoro con e sul paesaggio.
Il paesaggio eccedente. Una delle prime declinazioni di questo rapporto si ha nella grande tradizione del cinema western: l’idea del paesaggio come apertura e potenza del racconto, da cui un personaggio si stacca e dà inizio alla storia, o in cui ritorna confondendosi in esso fino a scomparire. È l’idea del paesaggio enorme e senza confini, che ingloba o determina l’essenza stessa del personaggio, la sua storia e il suo destino, come nelle immagini fordiane (Sentieri selvaggi) o nelle sue tradizioni contemporanee (Paris, Texas di Wim Wenders). Il paesaggio eccedente, legato ai campi lunghi e lunghissimi del cinema è qualcosa di più dei paesaggi della grande pittura romantica, che travolgevano le Rückenfigur, gli esseri umani immobili nella contemplazione al loro interno; esso diventa un’idea metafisica del mondo, uno spazio al tempo stesso umano e oltreumano che cancella ed eleva gli esseri umani. Ciò che tale paesaggio determina è il movimento che produce, quasi sempre un movimento drammatico, fondato appunto sulla sproporzione tra la figura umana e il paesaggio. Questo movimento nega nel profondo la logica dell’inquadratura di contestualizzazione, in cui il paesaggio introduce e contestualizza le azioni umani che vi si svolgeranno. Esso può infatti rimanere lontano, oscuro, misterioso e irraggiungibile, come nelle inquadrature paesaggistiche di Herzog, o mai finito, come nei movimenti dei personaggi rosselliniani, che sono il perno visivo, la direzione dello sguardo che non smette di svilupparsi costantemente e di scoprire un paesaggio che rimane così inconoscibile, senza più punti di orientamento, capace di sconvolgere la visione. È qui che si gioca la particolare dinamica tra il paesaggio come radicale alterità e come mondo dell’uomo, proprio a partire dalla sua sproporzione. Ma non è solo il paesaggio rurale ad eccedere, è anche la città, la giungla urbana, il dedalo in cui perdersi ne Il segno del leone di Rohmer o in Fuori orario di Scorsese. In ogni caso è il cinema a lavorare i paesaggi, evidenziandone l’enormità non umana o più che umana. E il cinema italiano (dal neorealismo in poi, basta pensare al saggio di De Santis, Per un paesaggio italiano) ha giocato un ruolo particolare nel determinare una eccedenza del paesaggio rispetto alla determinatezza dell’ambiente, accentuando lo smarrimento del soggetto (Rossellini, Antonioni fino ad Amelio), o anche inscrivendo una istanza contemplativa (De Seta e il cinema documentario) all’interno delle diverse forme di prassi, e dove il paesaggio del Sud ha svolto un ruolo particolare.
Il paesaggio mobile. Il cinema spesso crea i paesaggi, non li rappresenta. Non si tratta solamente dei set, spazi controllati e artificiali che cercano di bloccare ogni via di fuga dello sguardo o che sono capaci di costruire macchine mobili della visione e dell’ambiente. Si tratta soprattutto dei paesaggi creati attraverso il montaggio, che dunque esistono come amplificazione, trasfigurazione visibile del ritmo dei corpi, delle loro emozioni e sensazioni. È la passeggiata a New York con cui si apre Un giorno a New York di Donen e Kelly, in cui i tre marinai saltano letteralmente da un quartiere all’altro o l’erranza dei personaggi a Vienna, Parigi e in Grecia nella trilogia di Linklater, dove la prevalenza del long take non nasconde i tagli, gli stacchi di montaggio che creano un percorso unico e irripetibile. Ogni volta questa forma del paesaggio mostra allora l’idea che ne sottende la creazione cinematografica: esso non ingloba e non comprende i personaggi, ma ne amplifica lo slancio vitale proprio modificandosi, trasformandosi in relazione alle azioni, ai pensieri o alle emozioni dei personaggi. Il paesaggio può così perdere i suoi confini reali, mutare di fronte ai nostri occhi, diventare altro, spazio mobile che partecipa al movimento collettivo del film, entità al tempo stesso soggettiva ed oggettiva. Il fiume in Aguirre, furore di Dio, o ne La magnifica preda, il treno ne La signora scompare di Hitchcock sono paesaggi in movimento, in cui il flusso e il vortice contrastano con l’immobilità o l’invisibilità del paesaggio circostante (la giungla, il paesaggio di confine, le rocce); il deserto di Greed di Von Stroheim è lo spazio liscio che espande e assorbe la rapacità dei due protagonisti; la campagna inglese, mediata dallo sguardo dei paesaggisti inglesi del XVII secolo è lo spazio che ingloba a conferisce identità ai personaggi del mondo di Barry Lindon di Kubrick; la campagna italiana è la mappa mobile carica di un tempo sospeso in cui si agitano i personaggi sconfitti dalla Storia del cinema. Di Straub e Huillet. Il paesaggio selvaggio di Twentynine Palms di Bruno Dumont letteralmente distrugge i suoi personaggi, così come il deserto infinito di Gerry di Gus van Sant. Nella sua alternativa tra movimento e stasi, tra sospensione e vibrazione, il paesaggio si scopre personaggio agente, estensione dei corpi o alternativa ad essi.
Il paesaggio interiore. La dinamica tra soggettività ed oggettività dello sguardo, che determina il paesaggio in sé si radicalizza nella forma del paesaggio interiore. È la forma più astratta del cinema, la trasformazione del landscape in inscape, l’attenzione della macchina da presa che si sposta tutta su uno dei poli della relazione di sintesi che costituisce il paesaggio, vale a dire lo sguardo soggettivo. Il paesaggio diventa il luogo dell’abitare, lo spazio dove si posa lo sguardo e il desiderio del personaggio, così come le sue paure più recondite. È il giardino de Il posto delle fragole di Bergman, o lo spazio recintato de Il giardino dei Finzi Contini di De Sica. Luoghi intimi, paesaggi circoscritti, che spesso escludono il mondo esterno, si pongono come angoli sottratti allo sguardo, realtà virtuali dove poter vivere una vita creduta autentica, come il mondo video-game di Ready Player One di Spielberg, il mondo perfetto di Zardoz di Boorman o de Il mondo dei robot di Michael Crichton. Il paesaggio interiore si denota per sottrazione, per graduale esclusione di tutto ciò che costituisce il residuo oggettivo di ogni paesaggio. Nei kammerspiel o nel cinema di primi piani si determina allora un movimento particolare, che è quello della scomparsa del paesaggio, della sua incorporazione nei corpi e nei movimenti dei personaggi. Il volto eccede lo schermo e diventa paesaggio, o si pone come sua marca ideale, mappa di un territorio invisibile che il cinema esplora attraverso i dettagli, i micromovimenti, la durata dell’inquadratura. Il paesaggio reale scompare e diventa evocazione, memoria, nostalgia. Lo sguardo dei personaggi è dunque puntato verso la propria interiorità, anche quando, per contrasto, il mondo si estende senza confini di fronte a loro. È qui che il deserto può diventare la forma del vuoto delle esistenze né Il tè nel deserto di Bertolucci, o ne La prigioniera del deserto di Raymond Depardon. All’opposto del movimento per sottrazione, che fa del volto l’unico paesaggio possibile e visibile, il paesaggio interiore si configura spesso come estensione senza fine spazio che non fa altro che rimandare al soggetto la sua domanda muta, la domanda sulla propria identità, sulla propria vita. Ma ciò che il cinema costantemente produce è una continua interazione tra tutte le forme del paesaggio, ora accentuando un polo ora l’altro, in un flusso costante di movimenti del mondo e dei corpi.