N. 36: “Fantasma”

Nel 1896, a Nižnij Novgorod, Maksim Gorkij assiste ad una delle prime proiezioni del cinematografo dei Lumière. Il giorno seguente, in un articolo per il giornale locale lo scrittore russo scrive: «Ieri sera sono stato nel regno delle ombre. […]. Un mondo senza suoni né colori. Non era la vita ma la sua ombra, non era movimento, ma il suo spettro silente».
L’ombra e lo spettro, la dimensione fantasmatica del cinema accompagnano da sempre la settima arte, intesa come forma che sospende la vita e al tempo stesso la ripresenta; e che quindi ha a che fare, profondamente, con la dimensione del fantasma, con un’immagine cioè che, risalendo all’etimologia greca del termine, riguarda il “disegnare nell’anima le immagini delle cose”, come scrive Platone nel Filebo, o il prodotto della fantasia e della passione che fa permanere nella memoria l’icona della cosa stessa, come sottolinea Aristotele nel De anima.
La dimensione del fantasma abita dunque il cinema nella sua stessa essenza, come dispositivo moderno che sembra riattivare le forme e le modalità con cui il fantasma appare (e permane), nella cultura occidentale come in quella orientale. Ed è proprio questa dimensione ad accompagnare il fascino e il terrore, l’inquietudine e la seduzione che il cinema, grande occhio del Novecento, ha saputo creare.
È questa sua coappartenenza profonda al dispositivo stesso del cinema, inoltre, a rendere il fantasma una presenza/assenza costante nelle narrazioni cinematografiche, nelle teorie del cinema e nella ricerca incessante di nuove forme dell’immagine. Ogni corpo ripreso dalla macchina da presa assume una consistenza spettrale, come ricordava Derrida ne Il cinema e i suoi fantasmi: esso è al tempo stesso concreto e astratto, presente e assente, materiale e immateriale.  In un certo senso il cinema non racconta i fantasmi, ma ne svela la presenza nel mondo come forme mentali, icone delle cose del mondo. Icone necessarie, perché necessaria è la loro esistenza: necessaria per la nostra stessa conoscenza del mondo. Questa intima coappartenenza tra immagine e fantasma può però essere declinata in vari modi, ognuno dei quali permette di ripensare il rapporto in modo del tutto peculiare.

Il cinema che produce fantasmi. Le immagini del cinema lavorano l’immaginario, lo permeano, lo ripensano e lo producono. Icone, corpi divini e forme irreali attraversano la storia della settima arte costantemente. La creazione del fantasma (del phantasmata, dell’immagine mentale e fantastica del mondo), è dunque parte integrante del lavoro del film, sia esso cinema del reale o cinema dell’immaginario. È cioè la sua potenza trasfigurante, la capacità di mostrare corpi reali e al tempo stesso di trasformarli in altro, di trasfigurarne appunto la loro empirica materialità. Sullo schermo i personaggi, i luoghi gli eventi si duplicano, le loro tracce materiali sono accompagnate dall’immagine fantastica che essi evocano, testimoniando ancora una volta del carattere intrinsecamente fantastico del cinema, in ogni sua forma.

Il fantasma che è il cinema. La sentenza di Gorkij posta all’inizio è esemplare: essa risuona nelle parole e nei commenti che accompagnano la nascita del cinema, ritorna nei momenti delle grandi trasformazioni tecnologiche come l’avvento del digitale; accompagna le riflessioni di teorici, critici, pensatori che in modi e tempi diversi (da Cocteau a Bazin fino a Derrida), hanno posto l’accento sulla potenza del cinema di creare fantasmi. Le immagini che, proiettate su uno schermo non cessano di far muovere, sorridere, agire corpi di attori ormai scomparsi, di inquietare lo spettatore con sorrisi, gesti, espressioni che continuano a mostrarsi agli spettatori. Ma nell’epoca del ripensamento radicale dell’immagine il ruolo del fantasma sembra essere sempre più occupato dal cinema stesso; un cinema rimontato, riconfigurato attraverso rimontaggi, rievocazioni critiche o nostalgiche, trasfigurazioni video o digitali, che da Godard a Farocki, da Thom Andersen a Mark Cousins hanno rimesso in gioco le immagini del cinema del passato come immagini che ancora perturbano l’orizzonte della visione, come fantasmi reali.

Il fantasma che abita il cinema. Le storie di fantasmi abbondano nel cinema. Fantasmi che ossessionano l’immagine in cerca di vendetta (come nel cinema giapponese), fantasmi che malinconicamente esprimono la nostalgia di un esistere che non è più dato (da René Clair a Gus Van Sant), fantasmi che sono il frutto del desiderio che il tempo possa tornare indietro, che le scelte possano non essere irreversibili (da Hitchcock a Chris Marker, da Apichatpong a Mizoguchi). Fantasmi del tempo passato (da Dieterle a Jarmusch), fantasmi del desiderio, fantasmi come visioni mentali, fantasmi come ritorno del rimosso o fantasmi d’amore (da Mankiewicz a Rivette, da Wyler ad Assayas). La permanenza del fantasma ricopre nella narrazione come nelle immagini funzioni e ruoli diversi, ma in ogni caso testimonia di uno spazio dell’immaginario che penetra la realtà e ne svela la dimensione trasfigurata.