N. 30: “COSA”

Il tavolo che inizia a muoversi e a ballare nel primo libro del Capitale di Marx e Engels, lo strano oggetto Odradek di Kafka, le riflessioni sul feticismo di Freud, la “cosa” di Heidegger. Sono solo alcuni momenti in cui, nel passaggio tra Ottocento e Novecento, una riflessione sempre più articolata e complessa sulla “cosa” inizia a farsi strada nel pensiero e nell’arte occidentale.
Strettamente legato alla crescita sempre più rapida delle tecnologie legate all’esistenza quotidiana e ai modi di produzione, la nozione di “cosa”, le forme della reificazione del mondo diventano sempre di più centrali nella produzione di un immaginario diffuso all’interno di tutte le forme espressive: dall’arte novecentesca che inserisce gli oggetti o li risignifica all’interno di procedure estetiche nuove (da Picasso a Warhol, passando per Duchamp), alla riflessione teorica in molti ambiti disciplinari (dall’estetica alla filosofia politica, dalla sociologia all’antropologia). Il concetto di “cosa”, la dinamica della reificazione, o la distinzione tra oggetto e cosa, tra un mondo inorganico dotato di senso per noi e un mondo indifferente, la dimensione perturbante dell’inanimato (e parallelamente il suo sex appeal, per riprendere Benjamin) sono solo alcune delle questioni più rappresentative che emergono nella contemporaneità. Ma ciò che accomuna queste riflessioni è soprattutto il movimento che le attraversa tutte, esplicitamente o implicitamente: la cosa è anzitutto un’immagine o ciò che produce immagini. È attraverso il suo essere immagine che la “cosa” sfugge ad una considerazione legata esclusivamente alla sua materialità. Una riflessione sul concetto di “cosa” implica quindi una riflessione anche sul cinema, vale a dire sul principale strumento di produzione di immagini della contemporaneità. È il cinema infatti a presentarsi immediatamente come dispositivo che, sin dal suo primo apparire, mette in crisi i sistemi di rappresentazione tradizionali e trasforma ogni elemento del mondo in “cose” immateriali o, con un movimento parallelo ed opposto, gli elementi inanimati in “cose” dotate di anima. Nel corso della sua storia, inoltre, il cinema ha continuato a lavorare sulla capacità delle “cose” di diventare immagini, di mettere in crisi la loro apparente essenza di “oggetti”. Ed è l’immagine contemporanea a rilanciare con forza la questione del “farsi cosa del mondo”. I percorsi sono ovviamente molteplici e possono essere riassunti (senza la pretesa di esaustività) in alcune linee tematiche, percorsi che possono essere ulteriormente arricchiti e sviluppati.

1. La “cosa” come eccedenza di ogni immagine. Sempre di più nel pensiero e nelle forme contemporanei la “cosa” è distinta dall’oggetto, perché essa non si riduce a puro ostacolo per il soggetto, ma diventa oggetto dotato di senso, capace di suscitare emozioni, sensazioni, ricordi e memorie, rendendosi capace di aprire un mondo per il soggetto, di prolungarne o modificarne la sua esperienza nel mondo. Al tempo stesso però ogni “cosa” è anche eccedente rispetto a se stessa e rispetto alla sua capacità di essere carica di significati emotivi ed intellettuali. È l’oggetto per Hitchcock (una chiave, una bottiglia, una giacca), o è la strana “cosa” che Tomas Milian vede dalla finestra in Identificazione di una donna di Antonioni; è l’oggetto-feticcio in Ferreri (il portachiavi in I love you, la pistola in Dillinger è morto) o la bambola meccanica nel Casanova di Fellini. La “cosa” al cinema è spesso eccedente, feticcio o perturbante, innominabile oggetto horror che assume volontà propria (l’automobile di Carpenter, la bambola assassina della serie Chucky). La cosa è in questo senso il surplus del mondo nell’immagine cinematografica, il singolo dettaglio solo apparentemente insignificante che diventa elemento fondamentale, personaggio misterioso e silente, ma che continua a suscitare dubbi, domande, inquietudini, fosse anche come gioco (la valigia illuminata di Pulp Fiction di Tarantino o i tanti McGuffin del cinema classico e moderno).

2. La “cosa” come il senza nome dell’immagine. Il termine “cosa” è anche l’esperienza dello scacco del linguaggio, dell’arte definitoria e classificatoria del mondo. L’esperienza della “cosa” è un’esperienza anzitutto visuale più che linguistica. È l’esperienza di cui parla Hegel nella Fenomenologia dello spirito, quando, per cogliere l’essenza di una cosa, occorre sprofondare e perdersi nell’oggetto, stare a guardare. L’opposizione tra la cosa del mondo e il linguaggio che ne coglie gli elementi logicamente essenziali è in fondo parte integrante della storia stessa dell’immagine cinematografica, dal sigaro sul posacenere di cui parla Jean Epstein (che eccede ogni segno ed ogni simbolo), alla famosa affermazione di Rossellini durante l’intervista ai “Cahiers du cinéma”: «Le cose sono lì, perché manipolarle?». La cosa in fondo non è manipolabile, se non al costo di perderne la complessità, l’irriducibilità a pura categoria logica. Le cose sono ciò che resta quando gli oggetti perdono la loro strumentalità. Il cinema lavora e ha lavorato questa indicibilità della cosa attraverso le sue forme più radicali, dal cinema di Warhol (Empire come grande interrogativo/enigma sull’essere “cosa” del grattacielo) al cinema di Gianikian e Ricci Lucchi (Ghiro Ghiro Tondo, la lunga sequenza muta del museo del giocattolo): l’immagine diventa allora lo spazio in cui questa interrogazione muta del mondo si mostra e si fa concreta, e il perdersi nell’immagine della cosa permette forse di coglierne l’essenza più profonda, o il suo irriducibile mistero.

3. La cosa stessa del cinema. Cosa è il cinema, o il cinema è cosa? La domanda classica, la domanda ontologica che ha animato le riflessioni sul cinema della prima parte del Novecento, può essere rovesciata in una domanda sullo stato del cinema, o meglio del cinema come oggetto materiale, pellicola, supporto magnetico, o Hard Disk contenitore di dati digitali. Al di là della materialità del supporto, è l’immagine stessa a presentarsi come “cosa”, feticcio o oggetto di culto, “cosa” sfuggente eppure inscritta in una dimensione materiale. L’immagine-cosa, la fotografia stampata che diventa paradosso temporale e spaziale in Chris Marker o in Antonioni, il dipinto e il ritratto che diventano “cose” al tempo stesso materiali ed astratte, nei film museali di Straub e Huillet (Una giornata al Louvre) o Frederick Wiseman (National Gallery): sono solo alcuni esempi di un percorso in cui l’immagine non si presenta come rappresentazione o come sguardo sulle “cose”, come spazio entro il quale operare un risveglio della percezione del mondo, ma essa stessa, l’immagine, è una “cosa” del mondo, soggetta quindi ad una serie di processi di significazione, di investimento emotivo e passionale. È il cinema come “cosa”, la sala buia, la pellicola, il film proiettato in centinaia di sale di proiezione, o tagliato e rimontato, dipinto a mano o scheggiato come nei film di Stan Brakhage. La pellicola e l’immagine diventano (o si mostrano) nella loro materialità e nel loro essere passione e ideale.